Il problema dell’immigrazione selvaggia non si pone oggi, in Italia, ma discende da una situazione globale che vede il nostro paese al centro di un intrigo internazionale.
Non si può certo affermare che esista una tradizione razzista in Italia, non più che altrove, ma qualcuno vuol far intendere il contrario.
L’unità della nazione, a cui si è pervenuti per un gioco di equilibri politici, secondo alcuni derivato da manovre massoniche mazziniane (che qui non interessa approfondire), ha costretto a un’integrazione a tappe forzate i popoli che abitavano la penisola, molto diversi da nord a sud e finanche all’interno di aree affini: i dialetti variegati e le abitudini che ancora oggi sopravvivono sono lì a dimostrarcelo.
Così fu che si sviluppò un clima poco coeso, a stento ricomposto dall’immigrazione dal mezzogiorno verso le metropoli industriali, con il centro a fare da cuscinetto e una capitale tutta da rivalutare, da centro papalino e agreste quale era in origine (ma lo Stato Pontificio funzionava egregiamente prima dei moti risorgimentali).
Mussolini si incaricò di facilitare la fusione economica ed emotiva di una popolazione politicamente immatura e non preparata ad affrontare le sfide del ventesimo secolo, riuscendoci in minima parte, anche per la piega che prese il suo mandato negli ultimi anni e il precipizio che ne derivò. Tuttavia, residuò il ricordo dell’avventura coloniale che aveva prodotto molte famiglie “miste”, mai emarginate allora e munite di una prospettiva di realizzazione, troncata solo dal nuovo corso governativo post bellico.
Il dopoguerra a stelle e strisce ha visto modificarsi il cuore di quella che potrebbe chiamarsi l’etnia italica. Torme di generazioni hanno subito il colonialismo culturale imperante e aderito a modelli atlantisti, senza filtri o diaframmi che permettessero loro una mediazione con la vita tradizionale di chi li aveva preceduti, perdendo valori senza acquisirne di nuovi; né lo schieramento che guardava oltrecortina ha potuto offrire di più e di meglio, mentre il flagello della droga falcidiava gli strati giovanili della cittadinanza.
Improvvisamente e inaspettatamente – ma solo per noi sprovveduti e inesperti di stato profondo – si sono inseriti tra noi i migranti. All’inizio si trattava di filippini addetti alle incombenze domestiche presso famiglie abbienti e dei cosiddetti “vucumprà”, di solito maghrebini incurvati dai tappeti che vendevano in spiaggia. Nel profondo nord si insediavano operai dell’est europeo e dell’Africa subsahariana, ma si trattava ancora di fenomeni a margine.
La caduta del muro di Berlino nel 1989, che oggi non appare più così eroica, spalancò le porte al movimento delle genti, ma in una sola direzione: i continenti si svuotavano per convergere verso l’Europa occidentale (il fenomeno omologo negli USA fa parte di un altro film, da abbinare solo in parte al nostro).
Ogni lobby dello stivale fece la sua parte, riservandosi quote di “protetti” da introdurre da ogni dove: America latina, Asia, Africa ed ex blocco sovietico. Attribuire responsabilità oggi sarebbe esercizio inutile, perché è noto l’atteggiamento di alcune parti politiche, buoniste ognuna a modo loro, e di adepti che hanno spesso giocato a interpretare i progressisti di facciata.
Parallelamente si affiancava un’attività di modificazione del linguaggio, atta a piegare i pensieri all’unico credo uniforme e monocorde, pietistico ma senza connotati di compassione religiosa, un culto agnostico e altrettanto dogmatico di quello religioso, secondo cui ogni minima obiezione all’appiattimento dell’opinione era bollata.
La società multietnica è bella? Sì, se tutti hanno la possibilità di evolvere e progredire con gli stessi mezzi e le giuste opportunità. Ma è ciò che realmente accade?
A giudicare da ciò che si vede, no, e quel che non è visibile è anche peggio. Per favorire le diaspore, sono state spezzate le famiglie; bambini e adolescenti si sono dispersi per il mondo, in balia di ogni profittatore; le donne emigrate hanno visto arretrare le invocate emancipazioni degli anni sessante e settanta, buone solo per quelle che se lo possono permettere e spesso si girano dall’altra parte.
Attenzione, il nemico ha sempre la risposta pronta. Anche gli italiani emigravano, è la prima, con tutta una serie di altre, fino all’immarcescibile “sei un razzista”.
Si può tranquillamente affermare che, al netto di ogni rammarico più o meno rabbioso contro i vantaggi che la criminalità ha tratto dal contributo di molti extracomunitari, e finita l’euforia di inizio millennio per magnifiche sorti progressive mai arrivate per gli stranieri, ma spesso cessate per gli stessi italiani, oggi è lo stato sociale a pericolare.
Le scelte scriteriate degli ultimi decenni hanno creato nuovi ceti parassitari quelli sì, davvero interetnici, a scapito di chi, immigrato o meno, lavora e contribuisce al benessere comune.
Caduto dunque il vessillo della “bella vita” di una società in cammino verso il sole, promessa e non mantenuta nemmeno ai minimi termini, la sinistra (tutta unita, con l’appoggio dei finti antagonisti dei centri sociali e dei paperoni di Bruxelles) oggi campa di verde. Il green, direte voi. Anche, ma in una forma esplosiva.
Sempre impegnata a ridurre i cittadini al mitico “verde” delle tasche, essa arruola per due soldi i “nuovi italiani” nelle battaglie ideologiche che rischiano di disegnare i futuri territori come lande desolate, in cui i portapizze (ma solo quelle trasportano?) in bici elettrica o monopattino impazzito distribuiranno i pasti ai tremebondi indigeni tricolore, sfamati da qualche sussidio e pochi lavori da nerd.
Denunciare, anche se con poche o nulle speranze di trovare ascolto, il pericolo di una degenerazione sociale non è razzismo. Dovremo imparare a ribellarci, ma questa volta sul serio, alla dittatura del pensiero.
Carmen Gueye