2023, Italia, denatalità. Già, il tasso di natalità nel nostro Paese ha una tendenza così negativa che ora usiamo addirittura un prefisso per rendere l’idea di quanto gli italiani non stiano più mettendo al mondo dei figli.
L’ultimo report aggiornato dell’ISTAT dipinge un ulteriore calo del 1,1% rispetto al 2020, anno in cui la pandemia ha stroncato i numeri delle nascite mediamente al -2,5%, salvo poi concludere l’anno con un bel record di -8,3% nel mese di dicembre. I politici sia di destra che di sinistra cercano ormai da anni di arrestare il fenomeno, scavando nelle tasche dello Stato per poter sostenere le wannabe-mamme economicamente.
Ultimo fra tutti i provvedimenti è stato il Bonus Mamma, aggiornato allo scorso gennaio, che ha visto un leggero incremento dovuto all’aumento generale dei prezzi e del costo della vita, ammontando ora alla cifra di 1773,65€.
Poco più di uno stipendio italiano medio mensile per accompagnare una madre nei nove mesi della gravidanza, dove le visite mediche superano alle volte il centinaio d’euro, previe buone condizioni di salute del piccolo e della genitrice naturalmente, pena una maggiorazione; nel post parto, quando le spese per pannolini, latte, pappe, medicinali e vestitini oggi troppo grandi e domani troppo piccoli, superano sempre le aspettative di chi un figlio non l’ha mai avuto.
La Ministra della famiglia, della natalità e delle pari opportunità sembra dar voce ai mormorii che oggi il governo sia disposto ad allungare di un ulteriore mese il congedo parentale per la maternità, permettendo alle neomamme di restare a casa senza lavorare con l’80% dello stipendio per prendersi cura del proprio bimbo, mentre altri lavorano per loro. Sembrano misure auspicabili dal punto di vista femminile, eppure qualcosa stride in sottofondo, come se il discorso fosse stato tranciato a metà o fosse stato banalmente ridotto alla necessità logistica e unidirezionale di favorire tanto la crescita della popolazione italiana quanto il suo ringiovanimento.
E le donne? Oscurate silenziosamente nella gioia della maternità, il loro percorso all’interno della società appare essere già tracciato. Uno studio dell’American Psychological Association risalente al 2018 evidenzia come questa e altre forme di aiuti governativi causino l’allontanamento delle madri dalla possibilità di scalare la gerarchia lavorativa, di accedere a salari più alti, di essere semplicemente considerate “dedite” al lavoro, minando più in generale la loro -già precaria- immagine di donne in carriera. I motivi sono radicati in una comunità che, riportano Hideg, Krstic, Trau e Zarina nella loro ricerca, vede ⟪un’incongruenza fra i ruoli di leadership e quelli del genere femminile⟫, laddove a quest’ultimo vengono legati tratti quali sensibilità ai bisogni altrui ed empatia, mentre ai leader si assoggettano egemonia e orientamento alla carriera, ovvero attributi universalmente riconosciuti alla natura maschile. A causa di questi bias errati, infatti, le donne che decidono di prolungare il congedo di maternità fanno fatica a reinserirsi nell’ambiente lavorativo che si sono lasciate dietro, trovando scalfita la propria reputazione professionale per la decisione di dedicare più tempo e impegno alla propria prole che al lavoro. Simile preoccupazione è stata restituita dalla conduttrice del programma su Rai2 “Nei tuoi panni” Mia Ceran, che, alla fine di una seconda gravidanza, annuncia di volersi prendere una pausa dai suoi impegni lavorativi, consapevole della dinamicità del mondo dello spettacolo che cambia continuamente. La podcaster di Will Media racconta sul suo profilo Instagram come anche la paura di apparire debole per il suo ritiro dal mondo del lavoro l’abbia fermata per diverso tempo, prima di affermare pubblicamente ⟪non ce la faccio⟫.
Situazione simile, a cui la Ceran dicesi anche essersi ispirata per il coraggio, è stata quella dell’ex Prima Ministra neozelandese Jacinda Ardern, la quale ha presentato le sue dimissioni in una conferenza stampa davanti a tutto il suo Paese a meno di un anno dalla fine del suo mandato, ammettendo di ⟪non avere più benzina nel serbatoio⟫ per proseguire e di volersi dedicare alla sua famiglia, trascurata più di altre incombenze nella sua agenda. Ma se figure pubbliche come loro non sono riuscite ad affrontare la combo lavoro-maternità in modo sereno, come si può richiederlo alle donne non così benestanti, che non dispongono di un seguito di collaboratori pronti a semplificare loro la vita?
Il privilegio della vita piena e agiata è niente di fronte alle esigenze degli esseri umani, che, lo si voglia accettare o meno, hanno dei limiti fisici. E quando il privilegio è addirittura un miraggio, con soli 1773,65€ per i nove mesi di gravidanza, come fa lo Stato a domandare alle italiane di fare più figli? L’assegno unico familiare potrebbe essere apposto come legittimazione, se solo bastasse a coprire i reali costi che si devono affrontare; l’ampliamento della finestra temporale del congedo di maternità potrebbe passare come discolpa, se solo non precludesse alle madri una crescita professionale; oppure il Bonus Babysitter potrebbe essere stato pensato come un aiuto decisivo alle famiglie in cui entrambi i genitori sono obbligati a lavorare per il sostentamento dell’intero nucleo familiare, se solo non si limitasse alla soglia di 1200€, sufficienti forse a coprire 3 mesi di babysitting (considerando il caso in cui il bisogno sia quantificabile in sole due ore al giorno per cinque giorni a settimana con tariffe orarie economiche). In questo frangente di disallineamento economico fra realtà e necessità e paura per il futuro di una creatura innocente, si inseriscono tante di quelle donne che non hanno mai dato vita ad un bambino.
Diverso sicuramente il caso di tutte coloro che, come dichiarato dall’ex campionessa olimpionica Federica Pellegrini sul suo profilo Instagram, non fanno della maternità la loro priorità e l’unico obiettivo di vita per cui sentirsi realizzate. ⟪E’ sicuramente un traguardo ineguagliabile⟫, ma non l’unico che possa donare fierezza alle donne in quanto coronamento della loro esistenza. Divenuto un argomento che non fa capolino abbastanza spesso nelle conversazioni quotidiane senza un accenno alla responsabilità individuale della donna, la maternità è un piacere per chi ha desiderio di diventare madre, ma un’enorme pressione sociale per chi invece non ce l’ha, costretta in un senso di colpa perpetuo per preferire una carriera e al contempo nella frustrazione di vivere in un limbo di incompletezza. Il monologo della Francini a Sanremo ‘23 si è fatto promotore di questo velato concetto, scatenando reazioni vivaci: lo sgomento inferocito di chi ha semplificato la relazione figlio-obbligo, la sorpresa commozione di tutte quelle donne in teatro che hanno annuito alle richieste della società per non sentirsi ree; il sentimento di rivalsa condivisione delle femmine che invece non hanno mai nutrito un piccolo dai propri seni, per un momento non più escluse dalla storia perché non-madri; la tristezza di chi ha sempre voluto una famiglia e per cause endogene non c’è mai riuscita; ultimo ma non per importanza, il batticuore emozionato di chi, in attesa di un bebè, si è ritrovata nelle preoccupazioni da mamma prima di diventarlo. ⟪La parte più difficile di fare un figlio è immaginarlo⟫, afferma l’attrice toscana, e come darle torto? La nascita di un figlio sconvolge la vita di una madre in modi talmente intimi che probabilmente chi non lo è mai stata non può nemmeno immaginare, solo temere.
Ecco che la maternità assume connotazioni nuove, staccandosi dal solo assetto della natalità ed includendo tante situazioni satelliti che le ruotano attorno facendo comunque parte della stessa galassia. Altro pianeta all’interno di questa è la (rivelazione della) genitorialità: il lettore più attento avrà infatti già notato l’elemento mancante in questa narrazione di un nuovo nascituro -un papà. Ma, spesso omesso nel racconto della fase iniziale di una nuova famiglia, questo è un altro vasto argomento da trattare in altra sede.