Tutti scrivono banalità, senza approfondire le fonti e cercare i dati. Si leggono in rete e si rilanciano vicendevolmente, affermando le stesse idiozie “intelligenti”.
Sicché è un autentico piacere incappare, ogni tanto, in un analista acuto che non appartiene ai think tanks eccellenti (inglesi, americani, indiani, cinesi e perfino russi).
È il caso di Guido La Barbera che, in Lotta Comunista di questo mese, ha dimostrato una lucidità estrema. Un’analisi da cui ci possiamo discostare in qualche dettaglio, divaricandoci però totalmente nelle conclusioni. Per lui, da coerente leninista, l’imperialismo europeo va combattuto (ma insieme a tutti gli altri); per noi va sostanziato e reso volano di un modello imperiale. Nulla di nuovo sotto il sole: sono esattamente le stesse differenze di 104 anni fa. L’albero è nel germoglio.
Gli arbusti e i rovi che ci circondano, no.
Jalta messa a nudo
La Barbera ci ricorda come il fondatore della sinistra leninista italiana indipendente del dopoguerra, Arrigo Cervetto, nel 1968, dopo l’invasione di Praga, definì l’imperialismo unitario che già aveva intuito nel 1956, durante l’invasione di Budapest.
“La scoperta scientifica della vera spartizione contestava l’ideologia dominante di una contrapposizione tra i due blocchi, quanto era simboleggiato nell’immagine di una guerra fredda tra l’Occidente e il sedicente campo socialista raccolto attorno all’Urss…
Non c’erano due sistemi in lotta, c’era un unico sistema globale all’interno del quale le potenze si affrontavano in una dinamica di unità e scissione…
C’era una convergenza e un’alleanza di fatto tra imperialismo russo e imperialismo americano per tenere incatenato l’imperialismo europeo”.
Rendiamo merito a Cervetto e ai leninisti puri di aver messo così bene in luce la situazione reale di allora, ma ricordiamo che in questo erano stati preceduti dal neofascismo (in primis dal Msi) che aveva coniato il termine di imperialismo russoamericano sostenendo, a ragione, che il suo primo obiettivo fosse di tenere divisa l’Europa.
Furono la ripresa tedesca e giapponese a cambiare la faccia del mondo
Spetta invece a Cervetto il merito di aver colto, venticinque anni più tardi, quello che tra di noi aveva compreso solo Orientamenti & Ricerca che animavo da Parigi insieme a Walter Spedicato e Roberto Salvarani, con l’aiuto di Stefano Schiavi e di un Rainaldo Graziani che, all’epoca, era d’accordo con noi.
Ovvero che l’implosione sovietica fu un effetto collaterale della risorta contesa euro-americana, con la necessità per Washington d’imporre alla Germania l’allineamento forzato e di non farsi sfuggire, dall’altra parte del globo, il Giappone. Italia ottosettembrina a parte, i popoli della primavera mondiale erano tornati a dare forti grattacapi.
“Washington intendeva mantenere la superiorità militare nei confronti di tutte le potenze, Europa e Giappone incluse, ma quella corsa riarmista al dunque aveva minato a Mosca la capacità di resistenza dell’imperialismo russo.
Fu una risultante non voluta. Venendo meno il contrappeso dell’Urss, veniva a mancare per gli Usa il concorso strategico-militare di Mosca nel tenere la Germania e l’Europa divise”.
Il gioco americano in Ucraìna
Per l’attualità La Barbera cita Walter Russel Mead, esponente di quel CFR che detta da sempre la politica americana (e cioè mondiale), che adesso propone di cogliere la crisi ucraìna per spaccare in due l’Europa, e, quindi, creare problemi seri alle sue locomotive economiche, politiche e diplomatiche: la Germania e la Francia. E pensare che i sovranisti, presunti antiamericani, passano il tempo ad attaccare Francia e Germania e neanche sanno di appartenere per questo alla Stay Behind.
Ancora La Barbera: “Col che, notiamo, sarebbero attualizzati alle nuove condizioni strategiche i due obiettivi di Jalta e del dopo Jalta: attizzare la divisione in Europa e ostacolare il gioco di sponda della Ue con l’Asia e la Cina emergenti”.
C’è qualche neurone in giro!
E veniamo al Cremlino
“Putin ha ingaggiato a sopresa la sua avventura militare che ha colto l’Europa in mezzo al guado, attardata nell’insufficiente centralizzazione politico-militare”.
Una scelta apparentemente incomprensibile che, da come si è svolta, sembra dare ragione agli avvertimenti delle intelligences indiana, cinese, italiana che prima di quel 22 febbraio avevano parlato di un accordo con la Casa Bianca, tesi ripresa da Ahmadinejad nell’aprile dello stesso anno.
Quale che sia l’accordo, tacito o meno, e quale che fosse, o sia, il disegno autonomo russo, la scelta si è rivelata un boomerang inspiegabile.
Attaccare il Donbass dopo otto anni dal primo tentativo, farlo in piena descalation locale da quasi tre anni, il tutto mentre si ha il sostegno franco-tedesco su tutta la linea, è da camicia da forza.
Gli effetti per la Russia sono agghiaccianti
Citiamo qui solo fonti russe, di finanza e di economia, e analisi di comunisti russi, non di atlantisti (Banca centrale, Univerità di Sanpietroburgo, The Moscow Times, Proletraskij Internatsionalizm).
Carenza di personale del 70% nell’industria leggera, del 35% nell’ingegneria meccanica, del 25% nella produzione alimentare. Mancanza di 50.000 informatici per il complesso militare-industriale.
Nel 2022 calo della popolazione russa permanente di 566.000 unità (denatalità, aumento di morti, fughe per evitare la leva). Il reddito del 20% dei professionisti è inferiore al minimo di sussistenza nella regione in cui vivono. Con il crollo demografico nel mercato del lavoro l’ingresso dei giovani è la metà rispetto a dieci anni orsono. Peraltro, tra insicurezza, alcool e droghe scadenti l’alto tasso di mortalità e la bassa aspettativa di vita avvicinano la Russia agli Stati più arretrati tra quelli “in via di sviluppo”. Inoltre la fuga di cervelli sta causando una corsa all’accaparramento da parte di Kazakistan, Kirghizistan, Armenia e Georgia, dove le influenze cinesi, americane ed europee si fanno sentire.
Il tutto mentre la Russia, sempre più provincia di Pechino, ha particamente perduto Vladivostock.
Gli analisti ritengono che la Russia corra il rischio di un secondo decennio perduto anche peggiore di quello successivo alla crisi globale poiché non si tratterebbe più di stagnazione ma di regressione.
Gli indicatori
Prima della guerra, nel 2019 il tasso di crescita russo fu della metà rispetto all’economia globale (1,2% contro 2,4%).
Nel 2021, fronte alla ripresa, la Russia crebbe dell’1,1% contro il 5,9%
Nel 2022, anno di guerra, l’economia russa è calata del 3,5% (2,1% sostiene il Cremlino) mentre quella mondiale cresce del 2,9%.
Putin aveva già lanciato, e perso, la sfida per rendere l’economia russa non più dipendente esclusivamente dall’esportazione di materie energetiche: il risultato fu l’opposto.
Nel 2016 scommise che la crescita russa entro il 2019-20 sarebbe stata superiore a quella mondiale.
Fallito anche questo traguardo e considerato l’accordo tra Kiev e la Ue per il nostro utilizzo dei metalli rari ucraìni, deve aver pensato di mettere a frutto le complicità di Jalta (tacite o meno è irrilevante) e intraprendere la follia in cui si è impantanato, facendo così un enorme favore agli americani e dando grossi problemi a noi europei.
L’Europa di fronte alla sfida
Citiamo ancora La Barbera. “Macron torna sulle nozioni di autonomia strategica e sovranità europea con una serie di obiettivi definiti: una base industriale per la sovranità militare; una voce europea sui trattati in materia missilistica e di dissuasione nucleare; una capacità di colpo in profondità nei missili balistici; una difesa antiaerera che prenda in conto la dissuasione nucleare”.
Ma i tedeschi come si pongono? Questa è la domanda di sempre, il polo franco/tedesco essendo anch’esso unito e scisso e necessitando di una grande attrazione centralizzatrice.
La conclusione di quest’analisi eccellente è: “Il riarmo europeo è avviato. Una risposta coordinata dell’asse renano che abbia proporzione con la sfida strategica, invece, si fa attendere”.
Speriamo non troppo! Magari con l’attiva partecipazione italiana.