I racconti, quelli sono tutto. Qualcuno, una volta, raccontava che essi “sono il bagaglio che portiamo nello zaino da esploratori, da cartografi, da viandanti e viaggiatori. Sono il desiderio di aprire nuove rotte senza rinnegare il nostro capitale umano”; l’ideale della società aperta, dove il centro torna a essere la piazza.
Così ci sono frasi o anche semplici parole che, una volta incontrate, sembrano destinate a non lasciarci più; continuano a interrogarci per lungo tempo e a insistere nelle nostre vite. Si tratta di andare alla ricerca delle tracce che rendono tutti noi solo “apparizioni”. Portiamo i segni del nostro tempo disseminati sul volto, spesso cupo e privo di speranze, per un futuro che appare sempre più incerto: abitualmente relegati ai margini di un campo visivo dominato da “altro” che possa distoglierci da qualunque tipo di pensiero negativo. Chomsky e le sue “strategie della distrazione” avrebbe molto da insegnarci, ancora oggi.
E tali tracce suonano oggi stonate in quel mondo che della pretesa di attribuire a tutto e a tutti un nome, una qualsivoglia definizione, un’etichetta, ha fatto il coronamento della sua aspirazione di padroneggiare la realtà, distogliendoci dalle cose vere, profonde, umane. Eppure qualcosa ci dice più o meno d’altro cosa siamo diventati: parla di quanto la nostra epoca volentieri cancelli dal proprio orizzonte disfatte, contrattempi, rivolte, resistenze mute e senza fama. E per marginali che essi siano, tali eventi parlano sin da subito un linguaggio nuovo: quello dell’urgenza e del bisogno da cui scaturiscono; di necessità improrogabili, di un’emergenza in atto che comprende ciascuno di noi. Riguarda il nostro essere, ciò che possiamo dare in termini di offerta ad una società che ha fatto del bisogno la sua primaria essenza; volta al “progresso”, alla rottamazione e alla “selezione”. Come se le persone fossero un capitale economico, più che umano, sul quale investire.
Un approccio che ci ha portati sempre più con la testa nel cassonetto (letteralmente). Catapultati in uno dei paesi con il maggior tasso di disoccupazione, mercati ed economia in crisi e la sempre più crescente povertà che invade come un cancro la popolazione, ormai inerme. Ma che altro si potrebbe fare? Forse si potrebbe fare una foto, ritrarre quelli che comunemente potremmo definire “barboni” o “clochard”, ma se i prossimi fossimo proprio noi?
Potremmo fotografarli, pubblicarli in sequenza, giorno per giorno, costruire un contatore, come quelli del debito pubblico. Ma d’altronde la povertà c’è sempre stata, non è un numero in costante aumento che ci preoccupa: quel che preoccupa è la perdita di alcuni ideali, della certezza che non c’è più nemmeno se un lavoro ce l’hai. Di un Paese deturpato dei suoi beni non solo culturali, ma umani. E sembra inutile riprendere in mano dati e indici che evidenziano “la fuga dei cervelli” dal nostro paese: li vediamo anche noi. Partono con biglietti di sola andata per Paesi dove la certezza per un futuro forse c’è. Seppur con immensi sacrifici.
Non è la povertà che strige lo stomaco: è il respiro tagliente sul futuro di ciascuno di noi. E l’impressione è che siamo tutti un po’ a corto di fiato. Quasi non riuscissimo a ripartire per ricominciare a correre. Quasi non riuscissimo più a tirare nei polmoni tutta l’aria che la vita ha da offrirci, congestionati dal fumo che costantemente, istituzioni e politica, ci buttano addosso. Dal disfattismo ideologico e culturale che oramai ci accomuna. Come se tutto oramai dipendesse dal fato e dalle sole conoscenze e non più dalle nostre stesse capacità, dal merito e dal titolo di studio.
Sui volti di molti giovani non ci leggi i segni della povertà, poiché non hanno nemmeno storie particolari da raccontare. Sono persone normali, che lavorano per il sostentamento di un Paese. Magari hanno la faccia sbarbata, la camicia pulita, le mani curate. Volti lavati col sapone e otto ore di sonno alle spalle in un letto comodo. Ma allora di che povertà parliamo? Forse di quella che evade le classiche categorie della povertà, che in parte ci rassicura ogni qual volta un lavoro ancora c’è, anche se sottopagato e poco tutelato. Siamo esattamente come quei clochard e quei barboni: se non lo siamo all’apparenza – perché è la società dell’apparenza che ce lo richiede – allora lo siamo dentro, nell’animo. E’ lì che portiamo i segni che nessuno vede.
Il lavoro e le rassicurazioni, i moniti e le belle parole che ci vengono dette, non servono che per contenere la paura più intrinseca del fallimento di non riuscire più a soddisfare il peso delle aspettative cui tutti siamo sottoposti, chi più, chi meno. E per ricordarci che ognuno, della propria vita, può farne quel che vuole, ma se sei ridotto a scavare nei cassonetti forse è anche colpa tua. E non delle istituzioni.
capitale umano
Giuseppe Papalia
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