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Dimissioni di Boris Johnson: è un addio? O si prepara a governare?

Le dimissioni di ieri del ministro degli esteri inglese Boris Johnson sono un altro duro colpo per il governo di Theresa May, che rischia di non concludere il suo mandato alla scadenza naturale, con la conseguenza di nuove elezioni o al più di un nuovo esecutivo. Quest’ultima ipotesi non è da scartare, proprio per la motivazione che ha portato l’ex sindaco di Londra a lasciare il Foreign and Commonwealth Office di Whitehall: i negoziati per la Brexit si stanno rivelando, infatti, pure secondo l’altro ministro dimissionario David Davis, troppo soft, e decisamente non congrui alla volontà degli elettori che nel referendum hanno votato per il Leave, posizione per la quale gli ex segretari hanno parteggiato durante tutta la campagna elettorale, accanto a Nigel Farage, il leader del partito che più ha premuto per la consultazione, l’Ukip. E in effetti per ora c’è la sensazione che il Regno Unito stia conducendo i negoziati con i piedi di piombo e traballando; è questa cautela che sta provocando il crollo del fragile castello di carte di Downing Street. La Gran Bretagna non può permettersi un governo debole di fronte all’Europa: se vuole trattare dev’essere sicura di quello che vuole concedere, ma soprattutto di quello che vuole ottenere; non deve tentennare o esitare. Perché altrimenti le istituzioni europee potrebbero facilmente avventarsi non tanto su un essere vivente, piuttosto su un cadavere esanime. Non stupirebbe perciò un nuovo esecutivo guidato da Boris Johnson o da uno degli alfieri della Brexit: l’accusa che muovono all’attuale governo è quella di voler trasformare il Regno Unito in una “colonia dell’UE“, perché una soluzione alla soft Brexit non soddisferebbe né gli euroscettici né gli anti europeisti. Gli accordi finora presi porterebbero ad un’uscita dall’eurozona solo nominale. Dunque, che succederà all’attuale esecutivo? Le dimissioni dei due ministri sono stati un fulmine a ciel sereno, ma non troppo: c’erano già delle tensioni all’interno del gabinetto governativo; ora si è palesata, come si diceva poco sopra, la sostanziale debolezza di Theresa May, sia nel mantenere saldo il potere e far sembrare all’esterno il suo governo unito e coeso, sia nelle decisioni che assieme ai suoi ministri deve prendere durante i negoziati. I deputati del Parlamento inglese potrebbero sfiduciarla e porre fine al suo mandato, prima ancora delle sue eventuali dimissioni; in quel caso inizierebbero i problemi: nessuno garantirebbe un nuovo esecutivo del Partito Conservatore, ed anzi secondo il Corriere della Sera il probabile successore della May potrebbe essere il laburista Jeremy Corbyn, che potrebbe proporre un secondo referendum sulla permanenza o meno di Londra in Europa. E poi, la negoziazione dei trattati entrerebbe in stallo: uno scenario da escludere, visto che ormai il 29 marzo 2019, data ufficiale dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, è alle porte. A meno di rinvii dell’ultimo minuto. Che ne sarà perciò di Boris Johnson? A meno di assistere ad un geniale quanto ingegnoso coup de théatre, sembra ormai conclusa la sua carriera politica a seguito dell’europeista Theresa May (sì: per un esecutivo che si pone come obiettivo l’uscita dall’Europa, l’ironia della sorte ha voluto che gli inglesi si ritrovassero con un primo ministro che non fiancheggiava la Brexit); a meno che non si insedi proprio lui, il populista conservatore antieuropeista, al numero 10 di Downing Street. E’ un’ipotesi probabile? Non molto, a dire il vero. Ma se dovesse concretizzarsi, il Regno Unito lascerebbe da parte ogni tipo di leggerezza e di diplomazia per battere i pugni sul tavolo delle trattative, e proseguire le negoziazioni ad armi pari con l’UE: assisteremmo allo schmittiano e mitico scontro tra il Leviatano (Londra) e il Behemoth (Bruxelles). La politica populista dei brexiters prenderebbe una piega nettamente diversa da quella portata avanti dall’attuale esecutivo, più placida e centrista: dal tentativo di mantenere intatta la libera circolazione di merci e persone, si passerebbe alla ricostruzione delle dogane e delle frontiere (giusto per citare un esempio). L’uscita dall’Unione sarebbe perciò dunque e definitiva, inesorabile e senza mediazioni. Ma sarebbe altresì la realizzazione della volontà popolare, che si espresse con un referendum il 23 giugno 2016, il cui risultato fu neanche troppo velatamente deriso dagli europeisti liberal, i quali, ad urne chiuse e risultati esposti, inneggiarono al democratico patentino di voto e alla vittoria degli ignoranti che non avevano studiato e che prestavano orecchio solo alla pancia (dunque, senza portar rispetto alla democrazia di cui invece si fanno fieri difensori). Ora non ci resta che aspettare, e vedere quello che succederà oltre la Manica.
Alessandro Soldà