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DomenicaCultura Il mio Dante. “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”…

Così la strofa del celebre Canto V° dell’inferno, tratto dalla Divina Commedia di Dante Alighieri. Spesso sono portato a pensare come l’invocazione, poiché di invocazione si tratta, abbia più destinatari e non solo per Giovanni Malatesta, detto lo sciancato. Dante Alighieri, soprannominato così da Giovanni Boccaccio post mortem del divino poeta, in realtà si chiamava Durante degli Alighierus o Degli Alighieris, sul cognome non abbiamo certezze, figlio di Bella e di Alighiero di Bellinciona.  “Amor, ch’a nullo amato”, dunque, in effetti non esiste un solo rigo dove, Dante, cita i genitori.

Posso capire sul padre, anzi: sul babbo, così come appelliamo il genitore in Toscana, poiché Alighiero di Bellinciona fu un personaggio controverso diviso a metà tra lo strozzino ed il furfante; memorabile, da parte di quest’ultimo, “l’acquisto” di una basilica in provincia di Lucca dopo aver messo alle strette il parroco da buon cravattaro qual era. Dante non narra mai neppure la madre, donna Bella, piuttosto si spertica sull’amore unilaterale vissuto per Beatrice Portinari, una meravigliosa ragazza fiorentina figlia del banchiere Folco Portinari, conosciuta per caso sul Lungarno di Firenze, all’angolo di Ponte alla Trinità, mentre ella passeggiava con l’amica Vanna. Un incontro fugace, durato lo spazio di un nano secondo, uno scambio di sguardi, ma quella breve occhiata bastò per rendere Beatrice l’amore immortale della sua vita.

“Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta”… Così Dante descrive l’amata Beatrice nel XXVI capitolo di Vita Nova. Ma la donna tua, caro Dante, fu Gemma Donati, la figlia del nobile Ser Manetto, dove a lei non dedicasti manco lo straccio di una riga. Che si risentì. Fin troppo già tradita nell’animo, Gemma Donati, sbottò davanti alla compiacenza del marito sull’ennesima frase destinata a Beatrice: “Lucevan li occhi suoi più che la stella…” (Inferno, Canto II°). Gemma aveva ragione, seppure in molti, ancora oggi, si affrettano a considerarla una metafora o, peggio ancora, come una retorica. Dante aveva già abbondantemente scritto di donne e per le donne rendendole, ai posteri, immortali.

Ebbe pure parole accese persino per Piccarda Donati, cugina della stessa Gemma e strappata al monastero per un matrimonio imposto dai parenti, ma per la moglie Gemma mai. Nemmeno un rigo, del tipo Baci Perugina. Leggenda narra che, messo alle strette da Gemma, Dante si rifugiò in una frase confusa: i poeti non scrivono della moglie. Non citò mai la moglie ma nemmeno i suoi figli (Giovanni, Jacopo, Pietro ed Antonia). Antonia Alighieri prese il velo col nome di suor Beatrice, riparando nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi a Ravenna. Chissà se il nome scelto, Beatrice, fu dettato dalla passione di dire a suo padre: babbo, esisto anch’io!

Malgrado il suo fare introverso nei confronti della famiglia, nessun dubbio sul Dante letterato e poeta. Fu geniale, e la sua genialità si esprime nella “De vulgari eloquentia”, il tomo dell’elogio al vulgo, la parlata popolare, ma scritto interamente in latino mettendo la parola fine ai libri unicamente diffusi in lingua latina. Qualche anno dopo Giovanni Boccaccio, amico di Antonia Alighieri al punto di farle visita, nel 1350, in convento per portarle 10 fiorini d’oro frutto delle commedie sulla Commedia (dallo stesso Boccaccio rinominata in Divina Commedia), con le sue Novelle mise fine al petrarchismo rendendo la letteratura scorrevole.

Fu un genio, Dante, ma pure un bigotto. Un genio anche per pararsi da ogni evenienza. Infatti lui, fiorentino Guelfo, inserisce i Ghibellini in purgatorio facendo dire a loro una preghiera salvifica prima di morire. Salvifica per loro e… per proprio conto. Sia mai come poteva finire. Un po’ come le scuse di Francesca da Rimini a Giovanni: amar, perdona… Non sarebbe stata cosa avere contro una famiglia potente come i Malatesta. Francesca da Rimini, al porto, attendeva Paolo Malatesta detto il Bello, malgrado vide arrivare Giovanni Malatesta, detto lo sciancato, tra un bello ed uno sciancato fu dura a digerire. “Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse”. Come finì la storia tra i due amanti la sappiamo tutti, ma perché Dante narra proprio di Paolo e Francesca? Ovvero di una cronaca accaduta solo da poco quando, la storia, già era strapiena di concubini? Perché Dante non cita mai una figura straordinariamente importante, per la completezza della vicenda, come Concordia?  Concordia figlia di Francesca… e di chi?

Concordia si fece suora di clausura rifugiandosi nel Convento di Riccione. Ancor oggi, all’esterno del Convento, possiamo notare una lapide recante la seguente dicitura: qui visse nascondendo col sorriso il dolore nel cuore. Dante enigmatico, soprattutto leggendo il Canto riguardante Ulisse: “Fatti non foste a viver come bruti” … Il riferimento è il XXVI° Canto dell’Inferno dove, Dante, incontra il Re di Itaca, Ulisse. Ulisse è restio nel parlare con il Poeta, lui re greco confrontarsi con un piccolo italico non era cosa! Per di più, Dante, non sapeva una parola di greco. Ma Virgilio, il greco antico, lo conosceva bene. Pur a malincuore, Ulisse, accetta il dialogo con Virgilio. Ma Dante incalza, come un cronista d’antan… Chiedigli questo, e poi questo e poi quest’altro… Ed improvvisa, come una frustata, la domanda sul come, Ulisse, convinse i marinai a superare le colonne d’Ercole considerate, a quel tempo, la fine del mondo. La risposta, conosciuta come “l’oratio picciola”, ancor oggi desta più di una curiosità: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canuscenza”. Ma non credevamo la terra fosse piatta?

Mi fermo, ed esco “a riveder le stelle”, ma se il direttore lo vorrà, su Dante, potrei riempire la pagina della DomenicaCultura per i prossimi anni.

Marco Vannucci