Dalle primavere arabe del 2011 ad oggi, la situazione per la Libia non è di molto migliorata. Il Paese che fu di Mu’ammar Gheddafi è una “bomba ad orologeria” pronta a deflagrare nel Mediterraneo, ponendo seri problemi a tutti gli altri Paesi con essa confinanti.
L’autorità di Fayez al-Sarraj, primo ministro della Libia dal 2016, non è estesa all’intero Paese. Figure quali Khalifa Ghwell, Abdullah al-Thani e Omar al-Hasi da Homs e da Tobruk si sono messi a capo delle forze politiche che non riconoscono legittimo il governo di Tripoli.
In questa situazione, l’Italia non ha rimediato ottime figure. Dal 2011, anno del primo intervento militare, al 2017, l’anno della “missione di pace” stabilita da Gentiloni, s’è sempre faticato a trovare una controparte libica attendibile col quale dialogare. I problemi sul tavolo sarebbero tanti: arginamento e fermo dei flussi migratori e delle tratte umane; una miglior cooperazione economica per l’ENI; aiuti umanitari ed un nuovo ruolo d’interlocutore credibile per l’Italia e la Libia nel mondo.
L’Italia interviene in Libia: i pro
Rispondere efficacemente ai problemi sopraelencati non è affatto semplice. Da Berlusconi fino a Gentiloni, i governi hanno oscillato dall’intervento militare a quello diplomatico-unitario. Dopo la vittoria elettorale del ticket Legastellato, agli elettori preme soprattutto risolvere il primo punto: fermare gli sbarchi di migranti e richiedenti asilo.
Anche se i dati del Viminale suggeriscono diversamente, è innegabile che serpeggi un forte senso di sfiducia verso le istituzioni – europee ed italiane – e verso un’area che, al centro del Mediterraneo, costituisce da tempo un buco nero, sfuggente ad ogni controllo.
L’azione dell’ultimo Ministro dell’Interno, Minniti, pendeva più sul lato socio-umanitario che militare o politico. Le azioni di forza, come bloccare una nave piena di migranti, possono pagare nei sondaggi, ma non sul piano dei rapporti internazionali.
Abbiamo qui due azioni opposte che l’Italia non può replicare nel caso in cui decidesse d’intervenire in Libia. Memori dei recenti torti francesi, l’Italia deve mirare in Libia alla stabilizzazione d’un tessuto sociale sempre più malfermo e dare motivi concreti ai vari signorotti locali di guardare al nostro Paese – anche in ottica ENI – piuttosto che alla Germania/Francia o peggio all’ISIS.
Evitare una radicalizzazione religiosa di chi desidera una vita migliore è un aspetto “umanitario” che deve congiungersi ad interventi politici e non militari. Inutile rifornire di armi milizie locali che l’indomani potrebbero rivoltartisi contro. L’Italia deve operare efficacemente a livello politico in Libia poiché è l’unico mezzo per cambiare i rapporti in Europa da una posizione più vantaggiosa.
Il prestigio internazionale ed i vantaggi economici non vanno cercati proclamando assurde occupazioni territoriali, ma mostrando all’Unione europea che servano fatti e non slogan per risolvere un problema che prima o poi toccherà tutti i Paesi europei.
L’Italia interviene in Libia: i contro
Impelagarsi nel ginepraio libico comporterebbe all’Italia elevati costi. Nel primo intervento militare del 2011, l’Italia spese circa 1 miliardo e 400 milioni di euro. Anche se nel corso degli anni le spese militari sono diminuite, i costi di cooperazione sono gradualmente aumentati.
Ciò dovrebbe, secondo alcuni, andare di pari passo con una razionalizzazione dei fondi ed una loro più equa distribuzione. In tal senso il ruolo delle ONG e delle cooperative umanitarie è sempre più sotto il vigile occhio degli esponenti politici italiani, europei ed internazionali.
Non si vuole introdurre qui una banale questione di denaro, quanto capire perché queste associazioni sono tanto vituperate dal 2016. Fu un vero shock cognitivo per le persone capire che esistevano presunte connivenze fra le ONG e le tratte umane che partivano dalla Libia.
Le rappresentazioni mediatiche degli sbarchi e dell'”invasione” dei migranti, poi, hanno restituito un quadro fatto di pigrizia, di pressapochismo e di conformismo. Un tale “inganno” non ha fatto che generare la convinzione che la classe politica italiana fosse prona ai dettami europei e meschina negli affari interni.
L’Italia fra passato e futuro
In un certo senso, Berlusconi nel 2011 aveva visto lungo. L’allora premier non era assolutamente convinto della necessità dell’intervento, mentre parte della sinistra era persuasa che le primavere arabe davvero potessero modificare la situazione semi-dittatoriale del Nord Africa.
Così però non è stato. Vale davvero la pena per l’Italia entrare in una situazione creata da altri? La tattica franco-americana del mettere le tribù ed i partiti islamisti gli uni contro gli altri per un proprio tornaconto personale, ha reso soltanto la regione libica una delle più instabili.
Saprebbe l’Italia far meglio? A Conte ed al nuovo governo la risposta.
Pasquale Narciso