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No, il virus (secondo uno studio) non è sparito. Stasera atteso nuovo intervento di Conte

Nell'ultima settimana hanno fatto molto discutere le dichiarazioni del Primario di anestesia e rianimazione dell'Ospedale San Raffaele di Milano, Alberto Zangrillo, che all'interno di una conferenza stampa ha affermato come "clinicamente" il coronavirus "non esista più".

Nell’ultima settimana hanno fatto molto discutere le dichiarazioni del Primario di anestesia e rianimazione dell’Ospedale San Raffaele di Milano, Alberto Zangrillo, che all’interno di una conferenza stampa ha affermato come “clinicamente” il coronavirus “non esista più”.

Tali affermazioni avevano causato subito numerose polemiche, ora con le acque un po’ più calme è bene iniziare a fare maggiore chiarezza sulla vicenda. Alberto Zangrillo infatti, non essendo virologo, non ha parlato del coronavirus dal punto di vista epidemiologico ma le sue dichiarazioni facevano riferimento all’impatto clinico che ha sui contagiati ora, rispetto a due mesi fa.

E’ opinione condivisa infatti come il coronavirus, attualmente, non abbia più lo stesso impatto rispetto all’inizio della pandemia, con i nuovi contagiati che presentano, molto spesso, sintomi più lievi (e una presenza più bassa del virus nei loro organismi) che raramente portano a ricoveri ospedalieri o intubazioni. In questo senso diventa evidente come le dichiarazioni di Zangrillo siano state leggermente mistificate per far passare il messaggio che il virus fosse completamente scomparso dalla penisola italiana.

Alla base delle dichiarazioni di Alberto Zangrillo, come correttamente riportato da “Il Post”, vi sono i risultati di uno studio condotto dal direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia del San Raffaele, Massimo Clementi, che ha preso in esame l’esperienza clinica di circa 200 pazienti risultati positivi al covid-19 e curati presso lo stesso San Raffaele.

La ricerca ha evidenziato come, nei pazienti ricoverati a maggio, la carica virale del coronavirus sia risultata sensibilmente più bassa rispetto ai mesi precedenti. Questo fattore sarebbe indicativo del fatto che i “nuovi contagiati” presentino sintomi più lievi rispetto a quelli che hanno contratto il virus nell’acme della pandemia, dato che una maggiore carica virale influisce direttamente sulla gravità dei sintomi.

I ricercatori guidati da Luca Clementi hanno però chiarito anche come questo non significhi che il virus sia mutato, affermando come sia ancora presto per sostenere la tesi della mutazione anche rispetto alle conoscenze attuali e a quanto si sa sull’origine del virus.

Sebbene i risultati della ricerca vadano presi con cautela, sia per il numero ristretto di persone testate sia per l’origine clinica della stessa, possono essere indicativi dell’andamento del virus nel nostro paese. Per avere un quadro chiaro e sicuro sarà però necessario attendere che la ricerca venga pubblicata, solo allora si potranno avere ulteriori delucidazioni in merito e si potranno fare analisi concrete sull’eventuale indebolimento del virus rispetto all’inizio della pandemia.

Carlo Alberto Ribaudo