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Editoriali

Meloni, Macron e la lezione di Bruxelles

Scontro Meloni-Macron o no? Un ottimo spunto per capire come va ultimamente il mondo A Bruxelles Giorgia Meloni ha messo in riga come uno scolaretto Emmanuel Macron, rovesciando così lo schema a cui siamo abituati, con il Presidente francese che surclassa Marine Le Pen.
È la terza volta in pochi mesi che i media parlano di scontro tra Italia e Francia e che i diretti interessati si affrettano a smentire.
In questo siparietto è contenuta tutta la nuova realtà e l’incapacità di rappresentarsela.
Perché il rapporto Meloni-Macron è emblematico di tutto quello che accade oggi nel mondo e di come tutto vi procede.

Le narrative sono in crisi

Una serie di fattori ha messo in crisi la narrativa sulla globalizzazione, la sua stessa struttura e la sua ideologia ottimistica. Ne sono conseguiti effetti sostanziali che le narrative dei cantastorie di ogni colore non riescono più a rappresentare. Di qui la necessità semplicistica di acuire mentalmente tensioni duali, scontri, frammentazioni.
Ma la realtà è molto più complessa e va letta altrimenti non solo per decifrarla, ma soprattutto per indirizzarla.
L’evoluzione tecnica, il declino demografico occidentale (allargato alla Russia che anche in questo campo è alla frutta), l’avanzata cinese, il baricentro mondiale spostato sull’IndoPacifico, hanno scosso fin nelle fondamenta gli equilibri pregressi. Tutto quello che prima sembrava stabilizzato ora si trova in mutazione e mette a continuo confronto i due poli opposti dell’unità e della scissione che, in questa fase, sono entrambi acuiti. Chi vuol per forza vederne uno, può ignorare l’altro, ma è un problema suo che non c’entra con la realtà.

Tanti vorrei ma non posso

Non sono soltanto i fulminati de noantri, i sognatori di un settimo cavalleggeri moscovita, a dipingersi la guerra in Ucraìna come scontro tra Est e Occidente, lo è anche la stampa main stream, perché i giornalisti e gli analisti sono letteralmente perduti appresso a una dinamica il cui raggio è troppo ampio per poterlo mettere a fuoco con un neurone e mezzo.
Eppure abbiamo documentato a più riprese come il fronte “antioccidentale” non esista e come gli “alleati” se ne freghino ampiamente del Cremlino. Parimenti la Nato non sta facendo granché e, con le eccezioni determinate da moventi molto diversi, solo Inghilterra, Polonia e Francia stanno aiutando concretamente lo sforzo militare di Kiev.
Il discorso si fa ancor più complicato sul fronte della diatriba Usa-Cina, dove tutti gli alleati potenziali dell’una o dell’altra potenza sembrano orientati ad armarsi. ma per non combattere, e a fare tutto meno che distaziarsi dal proprio avversario teorico. In Usa e in Cina, ai massimi livelli, succede la stessa cosa. Poi ci sono gli interessi intricati che rendono più difficile il cosiddetto decoupling globale da Pechino.

Odi et amo, amo et odi

In assoluto non si può escludere che la dialettica Washington-Pechino scaturisca in guerra, ma è improbabile in quanto ci vorrebbe un numero alto di errori da ambo le parti e anche da quelle dei rispettivi partners. Più probabile è una nuova Jalta globale, stavolta sinoamericana, cosa che per noi non sarebbe affatto auspicabile. Esiste infine una terza possibilità, che è quella su cui si stanno orientando un po’ tutti, ovvero un multipolarismo anomalo, con tre soggetti semiglobali (Usa, Europa, Cina) e alcune potenze che diventano regionali o macroregionali per la propria crescita (Turchia) o per il proprio declino (Russia).
In questi scenari si avrebbe coazione a ripetere delle relazioni attuali in cui tutti sono al tempo stesso alleati e avversari di tutti. Il caso più eclatante è quello che riguarda Russia e Turchia, ma vale sempre, che si tratti di Usa e Inghilterra, di Russia e Usa, di Cina e Giappone, di Giappone e India e, restando al nostro caso, di Italia e Francia. Ma lo stesso accade anche tra Francia e Germania e tra Germania e Italia.

Una grande opportunità

Tutto questo è positivo, Non per le demenziali suggestioni sovraniste, ma per un cambio di mentalità e di cultura. Perché il ruolo dello Stato nell’economia e nell’armamento è tornato ad avere valore; perché le necessità neoimperialistiche succedute al declino dell’internazionalismo pacifista dettano la necessità di riaffermazioni patriottiche e di valori virili. Lo è perché l’acuirsi della scissione e dell’unità offrono il destro per la ricerca di nuove sintesi e di nuovi equilibri.
L’Europa come unità politica accentrata e burocratica non può funzionare, il che non significa che un accentramento non sia indispensabile (e si sta realizzando), ma che non è sufficiente perché ci siano dinamica e volontà di potenza. Esistono parti diverse con aspirazioni diverse. Così esistono un’Europa franco-tedesca con mire globali, un’Europa dell’est che vuole riaffermarsi dopo il doppio sfruttamento russo e occidentale e che si situa tra Visegrad e il modello Intermarium, un’Europa del sud con proiezioni euroafricane. Nessuna di queste tre componenti può andare da qualche parte da sola, ma al contempo l’Europa non può annullare alcuna di esse.
Tra unità (Unione) e scissione (Confederazione) esiste la sintesi di un’Europa imperiale con la convergenza e la sinergia delle sue distinte parti, da rafforzare e da sviluppare armonicamente, anche con tensioni e distensioni alla Macron-Meloni.
D’altronde i grandi colossi (che sono federali), Cina e Usa, al loro interno funzionano così, trovando arbitrati tra le differenti volontà economiche e geopolitiche delle tre Cine delle tre Americhe del nord.
Le prospettive sono notevoli, sono attraenti, e vanno tutte nella direzione del nostro pensiero.
Il ruolo universale del nazionalismo italiano, dettato dalla Roma silente, è il fulcro di tutto ciò.