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Eurozona

Le mille e una notte in Francia

Con quest’intensità le rivolte delle banlieues in Francia si erano verificate solo nel novembre 2005 ed erano servite a un doppio risultato: a far eleggere Sarkozy, di gran lunga il peggiore e il più antifrancese degli inquilini dell’Eliseo, e a raddoppiare le sovvenzioni alle associazioni che si occupano dell’assistenza nelle periferie.
Oggi sono esplose e si allargano a macchia d’olio in Svizzera e domani, se sauditi e/o turchi vorranno, anche in Belgio e forse in Germania.
È palese il fallimento della cosiddetta politica d’integrazione.
Ciò detto restiamo a un punto morto.

Nel razzismo antibianco, nel livore sociale, nell’identità tribale e/o nel rifugio in un fondamentalismo islamico peraltro inquinato, vagamente salafita, i rivoltosi hanno espresso un identarismo sedizioso che si accompagna agli atti di vandalismo, furto, rapina, stupro, come sedizione insegna.
Limitarsi a sostenere che questa è la prova del fallimento e che si dovrebbe invertire la marcia sarebbe puerile e velleitario, perché il problema è ormai cronico, viene da lontano e non ha soluzioni rapide.

Alcuni dati sono incontrovertibili. La maggioranza dei nipoti e pronipoti (perché di questo ormai parliamo) degli immigrati extraeuropei ha optato per un’integrazione conflittuale che consiste nel mungere la vacca assistenzialista e nel godere della politica di perdonismo, spesso d’impunità, giudiziaria di discriminazione positiva” che va avanti da più di quarant’anni a loro favore, articolando al contempo una scelta di vita sediziosa e aggressiva che si accompagna ad una retorica vittimistica per cui la “discriminzaione positiva” viene costantemente rovesciata e spacciata per un razzismo subito. Il che, in Francia, è a dir poco ridicolo.

I socialisti ai tempi di Hollande, dopo gli attentati del Bataclan e nei bar parigini, coniarono lo slogan “non si deve fare amalgama”. Tecnicamente è corretto, perché è vero che la parte aggressiva e sediziosa dei “nuovi francesi” non equivale al tutto. Va anche detto che spesso i loro nonni si sono integrati, malgrado le difficoltà oggettive, trovandosi, essi sì, di fronte a un minimo di discriminazione a loro sfavore. Ma lo hanno fatto in una Frncia fiera e con una cultura, lo hanno fatto da coloni accolti nella metropoli. Gli Harkis furono esemplari.

Dal 1968 in Francia si è imposta la logica dell’uccisione del Padre, con tanto di colpevolizzazione per il passato coloniale e di angelizzazione del colonizzato, già iniziate da un decennio.
Vi si aggiunga il profondo razzismo degli antirazzisti che, abbagliati dal mito rousseauiano del “buon selvaggio”, considerano gli extraeuorpei come degli inferiori da educare e, avendo abolito nell’educazione tutti gli aspetti virili e avendola trasformata in un dialogo in cui si porgono le chiappe, ne hanno fatto semplicemente dei viziati, come è accaduto del resto per i propri figli. Una miscela esplosiva praticamente impossibile da disinnescare.

Si aggiunga che con gli anticoncezionali, il lavoro femminile e l’aborto si è intrapresa la morte demografica, che c’è carenza di mano d’opera in età giovanile disposta a lavorare seriamente e che i sommovimenti internazionali chiamano spostamenti di massa e si comprenderà che uscire da questa situazione nel breve è impossibile. Lo si può, forse, in cinquant’anni.
Ma le misure di rallentamento e di miglioramento, prese da Berlusconi in Libia e da Macron nel Sahel, che hanno avuto un risultato significativo e che, se mantenute, ne avrebbero di notevoli, sono state sabotate. Le prime proprio dalla Francia di Sarkozy, le seconde dai russi agli ordini degli americani.
In quanto alle “ricette” destroterminali che parlano di reimpatrio di milioni di stranieri, sono comiche. In primis questi sono francesi da due o tre generazioni e non hanno altrove una patria che li possa accogliere, in secundis questa formuletta da babbei, che tanto assomiglia a quella dello stampare moneta per risolvere tutti i problemi, non sarebbe logisticamente fattibile.

Un cambio di prospettiva è possibile in un paio di generazioni, questo comporta accordi internazionali, politiche demografiche, sagace utilizzo delle robotica e un’inversione dei flussi, fattibile solo in una nuova ottica euroafricana.
Ma, di base, deve prodursi una rivoluzione nelle menti per uscire dall’aids culturale e spirituale che ci ha sottratto le difese immunitarie.
È necessaria una rivoluzione culturale che spazzi via l’antipatriarcato, le suggestioni woke, le arcadie progressiste e ogni forma di servilismo eunucoide che vanno dalla colpevolizzazione del maschio all’acclamazione del macho straniero, che sia esso tartaro, zulu o texano non cambia.

Chi s’illuda che gli scontri sociorazziali di questi giorni possano determinare la fine di un ciclo, sogna. Potrebbero in parte se le banlieues avessero la meglio sulle forze dell’ordine, ma questo, che di certo non è auspicabile, neppure è probabile.
Chi sogna (nella sua forma di sedizione salafita adattata all’estrema destra) che servano a far saltare il sistema, non ha capito niente visto che siamo in un’era nella quale i disagi e le disintegrazioni della società rafforzano il potere oligarchico.
È possibile e augurabile che essi possano, invece, produrre un cortocircuito e favorire dei ripensamenti del reale, come già si vede in giro, per esempio con Musk.
Il che sarebbe l’inizio potenziale di un nuovo ciclo di riaffermazione dell’essenziale che, tra le sue conseguenze, potrebbe risolvere anche questa questione prima del ventiduesimo secolo.

In questo possiamo guardare con aspettativa allo schock di questi giorni.
Ma chiunque si aggrappi alle formulette delle estreme destre degli ultimi quarant’anni sta proprio fuori del seminato.
Copia mal riuscita della sinistra d’antan, questo ambiente ha mutuato antiche analisi da ambienti d’avanguardia da cui crede di provenire, le ha certamente ingessate e devitalizzate ma, ciononostante, esse sono in parte valide. Così come lo sono quelle marxiane. Le proposte frettolose e rozze che ne conseguono sono però risibili e impraticabili, come quelle comuniste, con, in aggiunta, nessuna volontà di potenza!
Se qualcuno oggi sostiene con fierezza che “avevamo ragione” o si riferisce ad analisi di ambienti politici prima degli anni novanta (anche se dagli anni settanta in poi le stesse analisi corrette iniziarono ad essere mutile e ideologicamente distorte) o dice una cosa inesatta.
Senza contare che non ha nessuna rilevanza, se non per l’orgoglio, avere avuto ragione: bisogna averla adesso e, soprattutto, domani.