«Nulla di peggio del fascismo degli antifascisti» scriveva Pier Paolo Pasolini sulle pagine del Corriere della Sera, nell’ormai lontano 16 luglio 1974, in Scritti Corsari.
Una frase che oggi suona più vera che mai nel contesto sociopolitico che il nostro paese sta attraversando, sempre più omologato e conformato ad una lingua tutta nuova: fatta di diffamazione e censura (in tutte le sue forme, anche storiche), verso i simboli del passato. Con una sinistra, come già lo era al tempo di Pasolini il PCI, sempre più asservita al capitale, burocratizzata e distaccata dal popolo e dalla realtà.
Non è un caso che lo “storytelling narrativo” al quale oggi molti politici di sinistra hanno deciso di aderire – guarda caso in concomitanza con l’apertura dei lavori parlamentari e a pochi mesi dalle elezioni politiche – sia quello volto alla distruzione, nel suo significato più letterale e profondo, di una certa categoria antagonista di destra: avvalorando inutilmente leggi antifasciste contro “pericolosi” saluti romani (magari in favore del pugno tutto falce e martello) e adducendo a simboli fascisti e ritratti di un Duce oramai morto più di settant’anni fa. Come se questi potessero tornare nuovamente in vita.
Così, sul ricordo delle parole di un luminare storico del calibro di Pier Paolo Pasolini (lui sì che era uno per il quale valeva spendere il termine di intellettuale; uno che già al tempo andava oltre i classici concetti di destra e sinistra e che ha fatto delle sue opere delle denunce straordinariamente visionarie che si protraggono fino ai giorni nostri) si scopre che oggi quel che fa più paura del fascismo è l’antifascismo stesso; il quale legittima nuove pratiche fasciste mascherate da atti tutt’altro che democratici. Messe in atto da una sinistra che, in nome del politicamente corretto, si comporta come la peggior destra del passato. Chissà poi contro quale nuova tirannide.
D’altronde «i fascisti si sono sempre divisi in due categorie: i fascisti e gli antifascisti», per riprendere le parole dello scrittore Ennio Flaiano. E questo Pasolini l’aveva già capito a suo tempo, seppure in forme differenti (erano gli anni dei moti del ’68 e dell’ascesa della società dei consumi di massa e in quel caso lo scrittore si schierò dalla parte dei poliziotti, ritenuti “figli di coloro che erano veramente poveri” contro i figli di papà piccolo-borghesi scesi in piazza a protestare contro i loro stessi padri, con metodi squadristi e del tutto fascisti) scrivendo: «esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. (…) Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo».
Forse quel che oggi fa più paura è la consapevolezza, da parte di alcuni, di aver commesso errori significativi sul piano decisionale delle scelte politiche del passato, quest’ultime non sempre indirizzate al benessere e agli interessi di quella fascia più debole ed emarginata di cittadini che nella sovranità hanno ritrovato le loro radici identitarie: ne è un esempio il dietro front da parte del PD sulla legge in merito allo Ius Soli, bloccata e cancellata dal calendario degli appuntamenti in Senato nonostante Renzi avesse affermato di voler continuare, consenso o meno, sulla strada della sua approvazione. Senza trascurare i numerosi passi indietro fatti in merito ai temi sull’immigrazione e alle politiche economiche. Perché? Forse per inseguire un consenso che sfuggiva verso destra? E così anche la “sinistra” ha smesso di fare la vera sinistra.
L’unica cosa che le è rimasta? Quella di prendere tempo, spostando l’attenzione dell’opinione pubblica su temi secondari e di minore importanza; la “strategia della distrazione” preferita da coloro i quali, dicendosi moralmente superiori, spesso agivano in maniera decisamente contraddittoria in assenza di vere argomentazioni: facendo emergere tutta la loro ipocrisia e il loro non più giustificabile fallimento.
Giuseppe Papalia
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