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Attualità Cultura Un bergamasco in Rendena

Lo stato di emergenza: la pozione salvifica per i governicchi all’italiana

La parola chiave, per definire l’Italia, è: emergenza. L’Italia è perennemente in emergenza: non abbiamo passato tre mesi di fila, da quando siamo una Repubblica, senza conoscere uno stato di emergenza.

Non perché lo fossimo davvero, intendiamoci: certo, abbiamo avuto reali situazioni emergenziali, crisi enormi, catastrofi terribili, ma non è questo che intendo. Mi riferisco, invece, all’uso, tipicamente italiano, del concetto di emergenza, per tirare insieme la baracca, per rappattumarsi un po’, in attesa di tempi migliori: quasi che i tempi migliori vengano per una sorta di ciclicità biblica e non per il buon comportamento delle nazioni.

Un esempio macroscopico di abuso del concetto di emergenza è quello dell’utilizzo dei Decreti Legge come sistema legislativo ordinario. Il DL è uno strumento costituzionalmente legato a situazioni di particolare necessità e urgenza: serve, insomma, a fare una legge di immediata efficacia e poi, con relativa calma, il Parlamento è libero di confermarla o abrogarla.

Il senso di questa operazione è chiaro: c’è un problema, serve un provvedimento urgente ed ecco il DL. Solo che la nostra Costituzione, che, lungi dall’essere la più bella del mondo, è un pastrocchio pattuito tra due partiti che si odiavano e che avevano due idee del mondo del tutto antipodiche, ha definito uno Stato iperparlamentare, per paura di un esecutivo forte, dopo l’esperienza fascista. Col risultato di una costante ingovernabilità e di un iter legis farraginoso e lunghissimo: di qui la scorciatoia all’italiana dell’emergenza. La solita emergenza.

Però, fin qui, saremmo nei limiti del buon senso: in qualche modo bisogna pur aggirare gli errori della Carta, quando questi impediscono di lavorare. Che dire, invece, di questa ridicola emergenza Covid? Non perché il Covid non abbia rappresentato un’emergenza: io mi riferisco allo stato di emergenza, che con l’emergenza reale non ha nulla a che fare. E’ solo uno strumento per ottenere due risultati fondamentali per il governo, ma catastrofici per il Paese.

Il primo, ovviamente, è quello di mantenere in sella una compagine di nullità e di cioccolatai, che, altrimenti, qualunque libera elezione manderebbe a casa. Mi riferisco, in particolare, a quello scherzo della politica che è il ministro Speranza, che, guarda caso, prolungherebbe lo stato d’emergenza fino al tremila: uno così, al di là della fisiognomica, che pure parla chiaro, dopo le molteplici prove di incompetenza che ha messo in tavola, verrebbe imbarcato perfino se le elezioni si tenessero nel suo cortile. E, dunque, ben venga l’emergenza, salvifica e corroborante!

L’altro motivo è una questione di potere tout court. Con l’emergenza, l’esecutivo ha una clamorosa dilatazione delle sue prerogative: prova ne sia l’autentica diarrea di DPCM estrusa dal governo Conte. E già associare Conte alla parola governo forma un ossimoro: ve la ricordate la “Bodenza di vuogo”? Orbene, costui, dopo avere millantato uno stanziamento di settecentocinquanta miliardi (dico, settecentocinquanta) e aver ammorbato l’Italia con i suoi decretini, anziché autoesiliarsi in Botswana è ancora lì che pontifica. Senza emergenza, sai che correre?

Vabbè, facciamola breve. Più un governo è scalcinato, impotente, incapace e più farà affidamento su qualche emergenza: il Sud, la disoccupazione, i giovani, i fascisti, un virus, il dissesto idrogeologico. Dopo sessant’anni, non dico che mi diverta a guardare le capriole emergenziali, ma, almeno, non soffro più.

Quando mi hanno rifilato l’emergenza terrorismo, avevo vent’anni. A trenta c’era la mafia. A quaranta l’Islam. A cinquanta i dati OSCE.

Cosa volete che sia un’emergenza in più o in meno?

Marco Cimmino