Ieri, è arrivata la notizia della morte della signora Liliana, la mamma di Paolo di Nella: so bene che a molti questi due nomi diranno poco o niente, ma, per la mia generazione e per chi, in quel periodo, ha militato a destra, non c’è bisogno di alcuna spiegazione.
Paolo è stato l’ultima vittima della logica secondo cui ammazzare un fascista non è reato. E, in effetti, l’uccisione di Paolo, colpito da una sprangata il 2 febbraio di un lontanissimo 1982, mentre incollava manifesti per la difesa di un parco pubblico, non è stata un reato: è stata un’infamia. Un’infamia talmente grande e talmente priva di senso da convincere l’allora presidente Pertini, il fucilatore di innocenti, ad andare a visitare il moribondo all’ospedale e, di fatto, da chiudere una mattanza che durava da troppo tempo.
Paolo morì una settimana dopo l’aggressione: morì come Sergio Ramelli o come Carlo Falvella, non ucciso a colpi di pistola o di mitraglietta, ma macellato per strada, da qualche balordo che, forse, si sentiva un eroe. E questi balordi non l’hanno mai pagata: questa è la cosa che fa più male e che, ogni volta che qualche evento, come la morte di mamma Liliana, ci riporta a quegli anni, ci fa più rabbia, oltre che più dolore. Perché lo Stato sapeva, e non ha fatto nulla per impedire quelle morti: non ha chiuso le sedi dei violenti, non ha protetto la vita dei militanti di destra, non ha indagato, non ha condannato, non ha neppure censurato certi comportamenti in modo inequivocabile.
Per questo, noi, giovani di allora, ormai alle soglie della vecchiaia, non accettiamo la ricostruzione storica degli anni di piombo: perché è falsa, omertosa, autoassolutoria. Vedere gli assassini di allora presentarsi, senza vergogna, a parlare nelle università o in televisione, è uno sputo che ci arriva in piena faccia. Significa che non eravamo nulla, per questa Italia che abbiamo tanto amato: che eravamo scorie sacrificabili. E che i nostri carnefici, in fondo, erano nel giusto.
No, questo mai: questo non lo accetteremo mai. Non per noi, che abbiamo vinto la nostra guerra contro l’odio con la nostra felicità: amando, scrivendo, suonando. Ma per loro: per quei ragazzi rimasti per sempre giovani. Per quelle madri dignitose e disperate: Liliana, Anita. Per i sogni e la fede della nostra giovinezza: per la purezza con cui guardavamo alla Patria.
So bene che, anche a destra, c’erano pazzi assassini, deviazioni, camarille, oscuri legami: ma noi non eravamo così e non meritiamo che ci raccontino così. Noi amavamo la vita: la respiravamo a pieni polmoni. E per questo la morte di questi nostri coetanei ci ha ferito in modo indelebile: morti per cosa? Per decisione di chi?
Non era una guerra: sappiatelo. Era qualcosa di molto più simile a una grande truffa, in cui i ragazzi migliori sono stati ingannati e, infine, sacrificati. Ma gli adulti di allora: i giudici, i carabinieri, gli avvocati di allora, sono la parte peggiore di quella storia.
Una storia in cui nessuno paga: né i giudici né i carnefici. In cui a pagare sono stati ragazzi buoni e puliti, come Paolo di Nella.
Che, ora, finalmente, ha ritrovato la sua mamma. In pace.
Marco Cimmino