Oggi è il World Hijab Day, ovvero la giornata del velo islamico. Ma è anche il World No-Hijab Day. Nessuno scherzo, vediamo perchè.
Il 1° febbraio del 2013 è difatti stata istituita per la prima volta dall’attivista di origini bangladesi Nazma Khan la Giornata Mondiale del velo islamico, per combattere la discriminazione verso le donne musulmane che portano l’hijab (il velo) e, presa anche più in generale, verso la cultura islamica (islamofobia). La mission del movimento mondiale poi diventato una vera e propria associazione no profit operante a livello internazionale cita parole come la consapevolezza, l’educazione e l’emancipazione contro il bigottismo e i pregiudizi. Tutto nasce nell’adolescenza della leader dell’organizzazione, quando l’allora ragazza di fede musulmana viene in più contesti discriminata come “diversa”, a causa del simbolo religioso che le copriva i capelli, e più tardi, dopo il 9/11, addirittura additata come terrorista da chi, noncurante dell’essenza della religione e plausibilmente traumatizzato da quanto accaduto negli Stati Uniti, non distingueva la religione dal fanatismo. La frustrazione ed il dolore per il mancato riconoscimento di questa differenza e la distinzione di trattamento l’aiutano a portare a termine uno dei progetti più impattanti nel rinforzare il diritto all’uguaglianza, quale, appunto il World Hijab Day.
Il 1° febbraio 2018 è invece stato inaugurato per la prima volta dall’attivista iraniana naturalizzata statunitense Masih Alinejad il World No-Hijab Day per sostenere la battaglia per i diritti delle donne musulmane e di tutti gli oppressi dai fondamentalismi religiosi. Il movimento si pone come una vigorosa reazione contraria all’istituzione di una giornata che celebra la libertà delle donne di indossare il velo, costringendone fuori l’aurea di obbligo e sottomissione legata alla figura femminile che aleggia nelle società islamiche. Secondo il Premio Nobel per la pace, supportata fortemente dall’attivista canadese Yasmine Mohammed e dalla politica somala naturalizzata olandese Ayaan Hirsi Magan, la creazione ad hoc di un giorno per inneggiare alla facoltà delle donne musulmane di scegliere se coprirsi o meno innanzitutto svilisce la condizione delle innumerevoli costrette sotto un legislatore nazionale che arriva alla pena di morte e a centinaia di frustate, se il divieto di nascondere il proprio corpo (o parte di esso) viene trasgredito.
A tal proposito, è utile menzionare le recenti vicende relative alla morte della ventiduenne Mahsa Amini, per mano della polizia morale iraniana, che ha percosso la giovane fino a mandarla in coma e pochi giorni dopo alla morte, ritenendola colpevole di non aver indossato correttamente l’hijab. A seguito del suo decesso avvenuto il 16 settembre scorso, il Paese ha sperimentato una violenta ondata di proteste (tuttora in corso) che hanno turbato trasversalmente la popolazione, reclutando uomini e donne, ragazzi e ragazze, anziani e anziane, in tutti gli strati sociali. Il loro grido “Donne, Vita, Libertà” chiede l’abolizione di un ente statale che mira a relegare le donne ai margini della società a tutti i costi, pena la vita; domanda il ritorno all’uguaglianza e al rispetto dei loro diritti com’era prima del 1979, anno dell’insediamento della Repubblica islamica alla guida dell’Iran; pretende che non sia la religione una delle maggiori cause delle morti femminili (e non solo) nello Stato. Molte donne ora si muovono per le città senza coprirsi i capelli, in aperta sfida al governo, guidano, si truccano, fanno sentire la propria voce finora rimasta seppellita.
Sebbene si tratti solo di stoffa, il velo assume una connotazione altamente religiosa, pur senza forti basi religiose. Il Dr. Shabir Ally, uno dei più famosi interpreti e predicatori della cultura islamica, afferma che la Sura Al-Ahzab al verso 31 del Corano prescrive il dovere per una rispettabile donna fedele di Allah di coprire il seno dagli occhi indiscreti degli uomini, che così facendo la rimpiccioliscono, utilizzando un khimar, ossia un velo che raggiunge le spalle o al massimo la vita della donna. Egli aggiunge tuttavia che non si evince l’obbligo di avvolgere anche la testa, a meno che non ci si trovi in un momento di preghiera. Tutte le sue derivazioni normative che circoscrivono la libertà di azione ed espressione per la donna (vestiti compresi) sono fonte della mera interpretazione dei governanti, le cui leggi hanno rafforzato il potere maschile accentrato nelle mani di pochi eletti. Fra i requisiti imposti per portare correttamente l’hijab vi è la larghezza, affinché questo non riveli le curve femminili, l’opacità, al fine di non lasciare intravedere ambigue trasparenze, l’odore, che non deve essere profumo, e la tinta neutra e non sgargiante allo scopo di non attirare l’attenzione e di non dimostrare popolarità e/o fierezza. Osservando queste disposizioni, è palese l’intenzione di “proteggere” la bontà e la purezza d’animo della donna dalle grinfie dell’istinto maschile, che altrimenti piegherebbe la sua reputazione alla debolezza della carne. Qui, dunque, il concetto di modestia assume un valore inestimabile, che dal punto di vista religioso coincide con l’aspirazione massima di attestazione della fede islamica.
Esempio di quanto questo precetto religioso abbia attecchito è stata la modella somala Halima Aden, classe ‘97, che ha abbandonato il mondo della moda perché, seppur per molto tempo le abbia garantito l’accesso ai riflettori con indosso l’hijab e le abbia permesso di spianare la strada alle ragazze di aspirazioni simili, i canoni di bellezza dettati dal fashion occidentale pretendono, secondo lei, una subordinazione svalutativa dell’icona femminile, oltre a non comprendere a pieno le motivazioni dietro alla sua scelta di sfilare con il velo su capelli e collo. Malgrado le grandi compagnie accettassero legalmente la sua clausola di non dover mai rimuovere l’hijab durante i lavori – dice la modella di colore – non comprendevano il valore della modestia espresso dal velo islamico, accostandole talvolta oggetti che tutto rappresentavano fuorché umiltà. Dall’Ovest traspare quindi un’evidente difficoltà culturale a concettualizzare usi e pratiche simboli di religiosità.
Come considerare allora l’invito di Khan per tutte le donne musulmane e non a coprirsi il capo per solidarietà e rispetto in occasione del World Hijab Day? Da un lato si dimostra come lo sforzo della cultura occidentale per non insultare l’intelligenza delle donne di fede islamica che, vittime di pensieri plagiati, decidono volontariamente di indossare il velo islamico; dall’altro forse potrebbe essere concepito come tentativo di liberalizzare una pratica decisamente repressiva e regressiva, mascherandola come freedom of speech, parte dell’agenda islamica. Di nuovo, è tutta una questione di interpretazione.
Luisa Burdino