La vittoria schiacciante di Erdogan in Turchia, qualunque cosa si pensi del personaggio, è nell’ordine delle cose. Da tempo ormai la democrazia non tiene più il passo dei tempi e si trasforma, secondo alcuni, in democratura. La figura dell’autocrate diviene centrale. Questo accade ormai ovunque fuori dall’Europa tardo-sessantottina. In Russia, in Cina, in Israele, in Turchia, tanto per citare players di primo piano e senza perdere tempo a studiare i regimi personalisti del Terzo Mondo.
In Italia il vento è anch’esso verso una democratura – sia pur immaginata come democrazia diretta – e lo stesso avviene in diversi Stati europei. Perfino i paladin dell’Europa storica, Maron e la Merkel, assumono tratti decisionisti e da sovrani.
Quello che sta accadendo è in fondo molto semplice. La democrazia è sempre stata un vestito (e una maschera) il cui tessuto si fonda sulla narrazione del reale, una narrazione del reale adatta ad un certo tipo, di linguaggio e di cultura. L’avanzare implacabile dell’incultura con tanto di linguaggio e mentalità che sono di genere selvatico e primario, oggi richiede immediatamente risposte selvatiche e primarie. Tutta la mediazione narrativa della democrazia e, con essa, il suo ruolo di calmiere sociale, vanno profondamente in crisi. A furia d’ignorare la natura in nome di una presunta cultura le classi dirigenti post-sessantotine ne sono state spiazzate e travolte.
Il problema dell’Europa, in ritardo rispetto al resto del mondo, si spiega in due sole ragioni, entrambe dovute alla violenza sulla natura: la denatalità e la presunzione ideologica.
Perché l’Europa possa vivere e imporsi è su questi due elementi che deve agire immediatamente: tornare a concepire un sano vitalismo e superare la democrazia, non con logiche autocratiche di tipo orientale, ma con il Cesarismo e l’Impero i quali comprendono storicamente la partecipazione, l’autonomia, la libertà e il tribunato popolare.