Andrew Warhola Jr, questo il nome con cui fu battezzato, era nato nel 1928 a Pittsburgh, in Pennsylvania, ultimo di tre maschi, da genitori slovacchi di lingua rutena – il cognome originale venne anglicizzato. Quando qualcuno si prese la briga di andare a intervistare paesani e parenti nel paesino di Mikovà, dove è stato allestito un museo in suo onore, si avvertì orgoglio per l’illustre figlio di quella terra; ma altresì l’imbarazzo dinanzi a una figura che, nella Slovacchia di un po’ di temo fa, spaccava davvero troppo per quel mondo contadino, peraltro fin troppo dipinto al modo folk, compreso il corredo iconografico delle robuste signore col fazzoletto in testa.
Papà Senior era operaio e morì quando il futuro artista aveva tredici anni, per avvelenamento industriale; mamma Julia, già titolare di ambizioni pittoriche, in seguito andò a vivere con Andy, cui era legatissima, per poi tornare a Pittsburg prima della morte, avvenuta nel 1972.
Fu subito chiaro che il delicato bimbo, esangue, cagionevole, timido, era inadatto ai rudi ambienti proletari da cui proveniva; pativa il sole ed era affetto da vitiligine. Pare che avesse riportato un grave trauma per averle prese da una compagnuccia di scuola, episodio che lo rese allergico alla frequentazione, più che agli studi, orientati verso la grafica pubblicitaria. Fu questo l’iniziale terreno di sperimentazione di Andy, una volta trasferitosi, era il 1949, nell’amata Manhattan, da cui pare non si allontanasse quasi mai.
Innanzitutto si ritoccò il naso, che trovava ingombrante, anche se questo non lo riconciliò con il proprio aspetto all’inizio poco glam, poi filò dritto nei club gay. Mammà dovette abbozzare quando lo pescò in casa a baciare il suo partner del momento. L’artista giocò un poco sulla sua immagine efebica: si proclamava devoto cattolico e poco propenso al sesso praticato, ma avrà bellissimi e giovani amanti.
Le parole sul suo lavoro si sono sprecate; quel che viene trasmesso, e ci raggiunge, è il ritratto di un protagonista della vita culturale di New York, che finì per crearla, marchiarla, direzionarla per decenni. La sua Factory, sulla trentatreesima, era una fucina di libertinaggio anche autolesionistico, in cui l’esile genio si aggirava “come una macchina”, fotografando e registrando quanto più poteva, accumulando esistenza, oggetti, ricordi e rischiando la vita: accadde quando Valerie Solanas, aspirante cineasta strafatta, homeless, peripatetica e attivista, convintasi che il maestro le stesse rubando idee, sparò a lui e a due collaboratori.
Valerie, aspirante attrice e influencer fallita, vissuta cinquantadue anni, origini variegate (anche italiane) arrivò dal vicino New Jersey alla adiacente New York city giusto in tempo per diffondere il verbo femminista fondamentalista, arricchito di una biografia – a suo dire – infarcita di violenze domestiche, un figlio per forza, i soprusi del patriarcato, la pratica saffica e tutto l’armamentario di questo tipo di propaganda. Lei e Andy sembravano perfetti per oliare il meccanismo della città che non dorme mai, manifesto del progressismo sempre sul sorpasso; ma pare che infine il divino ne avesse le tasche piene e l’abbia definita “lesbica schifosa” (disgusting dyke) come riportato nella sua biografia scritta da Victor Bockris. Il mondo arcobaleno doveva ancora perfezionarsi, evidentemente.
Il metodo figurativo di Wahrol, che attingeva da tutto il cascame transitato per il suo laboratorio, costituirà incontenibile fonte di ispirazione per seguaci non sappiamo quanto validi, tra l’arte concettuale, la provocazione, e un supporto, sia pur stravagante, alla costruzione dell’olimpo divistico americano, che adorava e da cui gradiva essere finanziato. Una delle sue arditezze consistette nel diffondere immagini truculente di suicidi e incidenti stradali (un tema su cui tornerà, per esempio, il tedesco Rainer Fetting, con le sue maschere mortuarie).
Oltre alle sue creazioni pittoriche, le installazioni, il sigillo della ripetizione compulsiva delle immagini o degli oggetti, in cui si è voluto vedere tutto e il suo contrario, egli contribuì, con l’aiuto del regista Paul Morissey, a fornire fosca linfa al cinema underground. Partito con le famose inquadrature fisse di cose (come l’Empire State Building) o persone (tra i tanti, Salvator Dalì), sviluppò in seguito una tecnica più accettabile per lo spettatore, con la pellicola “Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!”, regia di Morissey, produzione di Warhol, interpretato dall’etereo luciferino ex gigolò poliamoroso Joe Dallessandro e la sua “fidanzata” del momento, l’italiana Stefania Casini. L’attrice, dopo quell’esperienza e altre apparizioni (per esempio in “Novecento” di Bertolucci) uscirà per un po’ dalla turbolenza warholiana e presenterà un festival di Sanremo minimalista con Beppe Grillo. In una intervista del 2019 leggiamo che Stefania avrebbe perfino prestato dei soldi al grande artista (non Grillo, Warhol).
In campo cinematografico la scuola Dogma 95 (massimo esponente il regista Lars Von Trier), nata – e finita – in Danimarca, erediterà l’uso della telecamere “addosso”, in senso però opposto a quello di Andy: lui non voleva muoverla, loro la agiteranno in continuazione, costringendo chi guarda a una noia che dalla fissità trasborda al movimento continuo degli occhi.
Tra gli adepti che godettero della sua protezione non possono sfuggirci i Velvet Underground, gruppo noto per l’effetto distorsivo delle chitarre, a cui era addetto anche Lou Reed; e per la goticissima cantante tedesca Nico, morta misteriosamente in un incidente in bicicletta a Ibiza.
Nico, al secolo Khrista Paffgen, era un personaggio alla Amanda Lear, con misteri e vagabondaggi deluxe nella sua bizzarra vita terminata a cinquant’anni, piena di flirt “eccellenti” con i più titolati sballoni d’epoca. La paternità del figlio Christian Aaron – Ari Pfaggen Boulogne è attribuita ad Alain Delon, che l’avrebbe rifiutato legalmente, ma affidato alla propria madre, da cui il bambino avrebbe preso il cognome da rimaritata.
Negli anni settanta la factory si trasforma in una LTD piena di giovani manager, di VIP a gara per farsi filmare o ritrarre (una sarà Carolina di Monaco), insomma uno “star – i – ficio”, sempre ben rimpolpato da contributi eccellenti; ma Andy poteva sempre mimetizzarsi dietro il concetto da lui stesso creato, il falso genuino, che è, non è, è tante cose e nulla. Gli USA giubilavano per il novello Leonardo da Vinci, convinti di aver messo a segno uno schiaffo morale all’Europa. In realtà le grandi opere artistiche (figurative, musicali e quant’altro) sono spesso contraffatte, materialmente realizzate da collaboratori e non dal boss che acquista la notorietà, e qualche suo amico ne prenderà soavemente le distanze, tra tutti Dennis Hopper.
Così, nel laboratorio che vorrebbe ricordare le botteghe dei maestri fiorentini, si procede con le minzioni sulla tela, dopo aver fatto ingurgitare ai protegé qualche intruglio per facilitare l’ossidazione e creare l’effetto Japan, portando chiunque a ritenere di poter essere l’artefice di un arte povera: tale, finché non giunge una ricca lady in cerca di emozioni, o il gallerista che deve stimolare il flusso di denaro della Grande Mela, tutto un mondo parassita e parassitato che ha costituito l’humus del groove eighties tra l’Hudson e l’East River.
Ormai Andy è incoronato e si dedica alla sua storica passione per l’accumulo compulsivo, che lo condurrà a bazzicare i mercatini delle pulci quando stanno per chiudere e prendere oggetti in cui lui solo riusciva a vedere la scintilla della bellezza. Si risolve ad accettare la decadenza e la vecchiaia, che lo ghermiscono ormai avvizzito anzitempo, catartizzandola in ritratti di miliardari agé dove “vecchio è bello”; concede interviste, superando il suo problema di dislessia, che però gli impedisce di scrivere un libro, redatto dai soliti gohstwriter, ma abbozzato e non concluso. Tra coloro che gravitano attorno a lui c’è anche Jeff Koons, futuro marito di Ilona Staller: ormai sembra che l’artista generi e si faccia padre, più che produrre in proprio. I bravi quindici minuti di notorietà, li ha acquisiti e forniti.
Refrattario agli ospedali, Andy deve ricoverarsi, per una infiammazione alle vie urinarie secondo qualcuno, per problemi alla cistifellea secondo altri; qualunque fosse il motivo, viene fuori che il personale se lo sarebbe “dimenticato” in camera, dove un’emorragia polmonare gli sarebbe stata fatale, il 22 febbraio 1987.
Al contrario di quanto aveva imposto per il funerale di mamma Julia, che aveva preteso essenziale ed economico, evidentemente tale non lo aveva preteso per sé nemmeno nel testamento che pure aveva redatto: così le esequie si svolsero nella monumentale chiesa cattolica di San Patrizio, con una folla eterogenea che ricorda quella poi vista da Gianni Versace, tra i presenti che piangevano/sniffavano.
Secondo parere diffuso la religiosità era un aspetto importante per il defunto, che prima di morire si era fissato con dipinti dell’Ultima Cena e andava in parrocchia tutte le domeniche, ma qui i testimoni divergono: alcuni assicurano che egli assisteva alla Messa, altri ricordano che la preferiva vuota per trarre idee e, subito dopo, dar da mangiare ai piccioni sul sagrato.
Fu arduo mettere insieme tutto il materiale da lui conservato, catalogarlo e incorniciarlo in una esposizione commestibile per tutti i palati. Tra oggetti da molti definiti “ciarpame”, anche le sue parrucche a volte oleose, inconfondibili, marchio di un magazzino di vissuto del quale l’artista, che amava la vita follemente, non voleva lasciare nulla di indimenticato. Chiunque passa di qui, deve poter trasmettere una traccia indelebile.
Nella metropoli, almeno un tempo, bisognava guardare i mezzanini e i primi piani per capire quale fiume di energia scorreva per i bracci della città monstre. E così, girellando attraverso le strade di Manhattan a testa per aria, si incrociano i destini di Warhol e Jean Michel Basquiat, nato a Brooklyn nel 1960 da famiglia mix caraibica, un papà contabile e una mamma artista mancata che, dopo il divorzio, finisce in una clinica psichiatrica dove il figliolo (che ha anche due sorelle) va regolarmente a farle visita.
E’ un ragazzo dai lineamenti particolari, intrigante e genialoide; verrà avviato a una scuola per talenti, salvo poi optare per una vita da strada, saltuario ospite di amici che condividono con lui vizietti e passioni artistiche (tra essi, lo spiritato attore Vincent Gallo). Jean Michel canta rap, suona, ma soprattutto dipinge e graffitta un po’ ovunque, scrive parole a babbo dove gli capita, dai muri ai quadri alle bottiglie, poi cancella, poi riscrive.
Mito vuole che il giovanotto caracollante un giorno abbia azzardato di avvicinarsi a Andy Warhol in strada, o al ristorante, riuscendo a vendergli dei disegni: una volta catturato il divino, la strada sembra in discesa per l’irrequieto ragazzo, che riuscirà, durante la sua breve vita, a girare un poco il mondo, esponendo dall’Italia (ma sarà inizialmente sottovalutato) alla Costa d’Avorio. Si registra una sua proficua collaborazione a tre, con Andy e il napoletano Francesco Clemente.
Conosciuto come facile conquistatore di donne, tra esse Madonna, l’esotico Jean ci mette poco a capire che da “nero” conduceva una vita più libera di quella che il mondo bianco gli offre, glam ma imbrigliata. Solo Andy si preoccupava della sua salute ma, morto lui, Basquiat degenera nell’uso smodato di stupefacenti e se ne va per overdose il 12 agosto 1988, preceduto da Valerie Solanas (25 aprile), e Nico (18 luglio). I tre hanno retto appena un anno dopo il loro mentore e oplà, via tutti insieme.
Carmen Gueye