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Marilyn – a piedi nudi sul vetro – I parte

Nella stanza di nonna c’era un baule di legno pieno di riviste e rotocalchi, una specie di emeroteca. Un giorno la scoprii. Vicino al vetro ornato da una tendina lavorata a mano, che scostavo per ricevere il massimo dell’illuminazione naturale del tardo pomeriggio d’estate, mi sedevo su di una bassa seggiolina impagliata, con il prezioso giornale di turno, che mi era stato raccomandato di non stropicciarle (l’aveva già letto, ma le piaceva tornarci su); prima di accingermi alla lettura, guardavo fuori.

Vedevo tanta luce su colline dolci e declivi. Non lo sapevo ancora, ma quella visione ricordava Los Angeles, solo senza lo smog, con le sparse abitazioni indipendenti e le masserie: d’altronde, in California, all’epoca trovavi le vecchie fattorie, quelle del quartetto Cetra. E la fantasia si scatenava.

Ero una piccola cinefila; da quando in casa era entrata la televisione avevo fatto scorpacciate di western, ma ogni tanto beccavo qualche pellicola sentimentale, cogliendo i volti delle dive.

Uno di quei pomeriggi mi colpì subito un articolo, già sparato in copertina e sul quale mi avventai; non conoscevo ancora la protagonista. Ebbene sì, Marilyn aveva qualcosa di palpitante che abbagliava, impedendoti di vedere altro che lei; infatti, per parafrasare, quel giorno “più non vi lessi avanti”, mi concentrai solo sul suo articolo. Propaganda ben congegnata? Senza dubbio, ma non con tutti i personaggi funzionava. Con la Monroe, sì.

Per gli uomini europei di una certa generazione, che potevano esserne stati ammiratori, Marilyn era una “donna da letto”, un’americana folle; rimase per alcuni anni in un limbo, circonfusa di tenerezza e pena, simbolo della ragazza sola, sfortunata, frastornata dalla fama, punita dalla sua vita sregolata, oca platinata da compiangere. Quell’articolo apriva un nuovo filone, il mistero sulla sua morte.

Non si può parlare di Marilyn senza accennare ai tempi della prima Hollywood, con la nascita del divismo, il gossip che diventa una disciplina istituzionale, un’onorata professione.

La zona degli “studios” era inizialmente una grande e luminosa distesa di “agrifogli” (hollywood appunto), che qualcuno trovò perfetta per costruirvi stabilimenti cinematografici, grazie anche alla vicina valle del Mojave, adatta a ogni tipo di location. Vi investì, in particolare, una comunità di imprenditori lì trasmigrati per operare liberamente fuori dal trust protezionista di Chicago, allora centro delle prime produzioni.

Il cinematografo, inventato in Francia dai fratelli Lumière, fu subito particolarmente apprezzato dagli italiani. Il primo stabilimento di un qualche rilievo infatti si registra a Torino e il primo kolossal della storia è “Cabiria”, del regista piemontese Giovanni Pastrone, girato nel 1914, ambientato nel III secolo A.C, che vide il contributo di Gabriele D’Annunzio.

All’inizio ci si doveva accontentare di una sorta di cartoni animati, azionati da un nichelino in una macchinetta (da cui il nome di “nickelodeon” dei primi cinema), poi la tecnica progredì e nacque la moderna magia, destinata a incantare le folle.

Gli americani, dapprima, copiarono. David Wark Griffith diresse un polpettone dal titolo “Intolerance” ispirandosi a “Cabiria” e pretendendo scenografie enormi e sfarzose che, dopo la fine delle riprese, rimasero per anni a marcire all’aperto, simbolo della nuova megalomania umana.

Si abbondava in scene spinte e seni nudi. Gli attori erano elementi secondari, contava il regista. La prima sexy diva del muto fu Theda Bara, ebrea americana spacciata per una dark lady arabo – francese. Girava molto denaro e gli attori acquisivano fama. I produttori dovettero rassegnarsi a riconoscerne il ruolo nel nuovo business e ad aumentarne il cachet. Nacque lo star system, che esplose dopo la nascita del sonoro.

I protagonisti del nuovo circo si ritrovarono improvvisamente ricchi e si misero in mostra per le loro sfrenatezze. Si arrivò, negli anni ’20, a registrare episodi incresciosi, mentre ancora non esisteva un apparato in grado di “coprire” il lato oscuro del nuovo, sfavillante mondo. Olive Thomas è un esempio per tanti come lei: simbolo della ragazzina scoppiettante di vita nel film “Tomboy”, moglie di Jack Pickford, della famiglia di attori allora più prestigiosa, morì venticinquenne in un albergo di Parigi, nel 1920, anticipando Jim Morrison, tra sfrenatezze e overdose. E che dire della festaccia in cui il super comico oversize Fatty Arbukle si divertì con una bottiglia, provocando la morte della starlette Virginia Rappe, nel 1921? Nel frattempo le trame dei film erano sempre più sfrontate.

Si giunse al codice Hays, chiamato così dal nome dell’ex direttore generale delle Poste USA (1879/1954), ingaggiato per ricostruire l’immagine, già compromessa, del cinema USA. Hays, manager esperto di “problem solving“, diremmo oggi, stilò un decalogo che in parte è ancora valido, attivo dagli anni trenta, che infatti videro subentrare pellicole molto più eleganti e “pulite”. Per sommi capi, si può affermare che erano bandite dalle sceneggiature le situazioni scabrose, mentre i comportamenti immorali dovevano implicare la punizione dei colpevoli. Shirley McLaine ha raccontato che le gonne erano trattenute da un complesso sistema di spille perché mai, nemmeno durante le scene di vento e tempesta, si vedessero, o intuissero, le mutande. Subdolamente entrò sempre, come sottotraccia di quei film, una certa critica all’Europa viziosa e l’esaltazione dei sani costumi americani, che ancora perdura. Si veda, ad esempio, la serie finto progressista dei primi anni duemila “L Word“, sul mondo lesbo statunitense. L’unico vizioso è un francese. Gli italiani? Donne prosperose, Caruso, tarantelle e mafiosi.

Di questa tendenza risentirono, soprattutto durante la presidenza Reagan, anche i serial televisivi. Il celebre “Dallas” iniziò con personaggi arroganti e immorali, ma presto virò verso l’inno alla bella famiglia a stelle e strisce, nonostante tutto.

Si solidificò per sempre il “romanticismo americano“, che fa da sfondo anche a una storia di surgelati. L’intento moralistico non viene mai meno, neppure davanti ad un serial killer, che ha sempre qualche buona ragione per agire. D’altro canto tutto è concesso per raggiungere la felicità, ad esempio rubare per beneficenza, come fanno i Blues Brothers.

Africa, Asia e America latina esistevano solo come elementi esotici e di nessun rilievo sociale. Il cinema era, ovviamente, cosa di “bianchi”: i protagonisti di colore si fecero notare solo negli anni ’60, a parte l’eccezione di “Via col Vento”, che costituisce un caso a parte. Qualche edificante storia d’amore “mista” aveva un intento educativo (come “Indovina chi viene a cena?”) o un esito negativo, ma per lo più veniva celata dietro un pretesto, per esempio mecenate e servitore, come ancora in “La mia Africa”. Oggi i due mondi viaggiano sostanzialmente separati, dopo un decennio di tentata integrazione tra personaggi. Dietro la storia ufficiale, spesso il film ne nascondeva, ma non troppo, un’altra parallela, come in Ben Hur o in Staying Alive: le scaramucce al maschile oscurano i personaggi femminili. Gli argomenti “duri”, pur non cancellati, andavano appunto un po’ indovinati.

Anche gli uomini passavano, o passano, per compromessi: lo si disse, due nomi per tutti, di Clark Gable e Cary Grant. In altre epoche, ovviamente, l’omosessualità era tabù e il pressing per contrarre almeno un breve matrimonio di facciata era costante. Rock Hudson vi si piegò. Anthony Perkins si sottopose a intense cure psichiatriche, sposò Berry Berenson (sorella di Marisa) ed ebbe due figli; morì sessantenne di AIDS, nel 1992. Montgomery Clift rimase fermo nel suo stile di vita, ma, pur sostenuto da grandi amici come Liz Taylor, declinò: a quarantasei anni, nel 1966, fu trovato morto in casa, per infarto. Di lui Marilyn pare abbia detto che era l’unica persona di sua conoscenza messa peggio di lei. Liz però solidarizzava solo con il coté maschile. Della Monroe disse “toglietemi dai piedi quella maledetta lesbica” alludendo a certe voci sul gusto della sperimentazione attribuito a Marilyn.

Poi c’è la questione delle sostanze. E’ opinione diffusa che a Hollywood siano in pochi quelli esenti dall’essere o essere stati consumatori di droga e farmaci estremi, per sperimentazione, vizio, soccorso emotivo poi divenuto dipendenza. Troppi soldi fanno male, affermava più o meno Robin Williams. Gli stupefacenti circolavano pesantemente già alla fondazione degli studios, per non parlare dell’alcolismo. Probabilmente esiste chi cerca di tenersi a posto, ma il problema permane e le numerose morti lo testimoniano. Le precoci scomparse sembravano cessate, o almeno diminuite verso gli anni ottanta, ma la fine di alcune star negli anni duemila ha riaperto gli interrogativi; Heath Ledger, Philip Seymour Hoffman, Whitney Houston, Brittany Murphy.

Vivere da divi è un impegno e ai tempi di Marilyn i metodi erano in fase di raffinazione. Gli esperti d’immagine ripulivano l’accento; a volte straziavano i capelli (a Rita Hayworth furono sempre strappate le prime file di bulbi sulla fronte, ritenuta troppo bassa) e anche la tintura era un rituale spaventoso. La stessa Monroe, oltre a dover ricorrere alla decolorazione che si utilizzava allora, subiva ulteriori trattamenti per le ciocche più refrattarie allo schiarimento. Le acconciature erano elaborate e le ragazze vivevano con la parrucchiera appresso altrimenti, e ben si nota, i capelli si sparavano per ogni dove e non c’era coda di cavallo o mollettone a rimediare.

Se la gravidanza non era opportuna, si venivacostrette, o perlomeno, spinte, all’aborto. Gloria Swanson, diva del muto, quasi ne morì. Quando le ricapitò ricorse a nozze provvisorie con il playboy padre del nascituro, come molte colleghe, e divorziò dopo la nascita, mollando una liquidazione al ragazzo. Non a tutte piaceva quel metodo o magari non potevano permettersi di farlo. La star “ragazzina tutto fuocoLupe Velez, già divorziata da Johnny “Tarzan” Weissmuller ed ex fidanzata di Gary Cooper, scopertasi incinta di un gigolò che s’era dato, si tolse la vita nel 1944. Le nozze erano sottoposte ad approvazione da parte dei boss. Lana Turner disse che, per quanto la riguardava, si sarebbe volentieri limitata alla convivenza, ma era vietato e dovette sposarsi sette volte. Marilyn si vide stracciare il certificato di (secondo) matrimonio con il fotografo Robert Slatzer.

…segue

Carmen Gueye