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11 settembre: le origini

In quegli anni il web stava assumendo una potenza inimmaginabile, fiorivano televisioni alternative, canali satellitari, abbiamo visto e rivisto tutto mille volte. Esiste un diffuso scetticismo riguardo a che i fatti vadano come sembra, ma la cecità del cuore occulta la verità, fosse pure per non affliggersi con troppe ambasce: a che serve andare oltre? Troppo difficile, rischioso, infruttuoso. Nondimeno i resoconti della tragedia sono continui, intriganti, anche da opposte fazioni e non si può ignorarli.

Sei vera, New York City?

New York aveva tutta l’iridescenza dell’inizio del mondo. (F. Scott Fitzgerald)

Come nasce la moderna Manhattan

Il primo grattacielo costruito a New York è il cosiddetto Flatiron building (letteralmente, palazzo ferro da stiro), così denominato per la sua forma triangolare, eretto nel 1902. Ora non sembra più quella gran cosa, paragonato ai successivi, ma conserva il suo inconfondibile stile d’epoca.

La metropoli americana è da sempre considerata porta verso il nuovo mondo e le tendenze a venire, ciò dove tutto accade e da cui nulla prescinde. Film e telefilm si ambientano volentieri nella Grande Mela (vera o ricostruita) e la Borsa locale è quella che detta le regole (almeno fino a poco tempo fa). È una babele di etnie, dove alcune nel tempo fanno fortuna e si spostano in migliori quartieri, lasciando il posto ai nuovi venuti: si pensi alla comunità italiana, oggi florida e ben piazzata, ben lungi dall’immagine stracciona di Little Italy, e ormai abbastanza distanziata dalla cattiva reputazione incollatale dalla mafia.

New York è composta di cinque “borroughs“, distretti o delegazioni o come vogliamo chiamarli (ognuno con una specie di sottosindaco). Il principale è Manhattan (da un nome dei nativi, con più traduzioni), che impone lo stile: un’isola lunga tredici chilometri e larga due, circondata d’acqua, il fiume Hudson (che la separa dallo stato del New Jersey) e l’East River, un grande canale. A nord c’è l’Harlem river, a sud l’oceano Atlantico. Una serie di ponti collega Manhattan con gli altri borroughs, Brooklyn, Staten Island, Bronx e Queens. Il tutto è punteggiato da isolette e sorvegliato da Ellis Island, con la sua statua della Libertà.

In origine se ne impossessarono gli olandesi, commercianti di pelli, che lasciarono in dote i nomi di molti quartieri o città satelliti, come Harlem e Yonkers; in seguito prevalsero i coloni inglesi, venuti a trovare fortuna dopo che la madrepatria li aveva respinti o non soddisfatti; a ruota arrivarono gli irlandesi e alla fine tutti gli altri, compresi gli ex schiavi africani liberati: dopo che pian piano i “pellerossa“, decimati in vario modo, erano stati rintuzzati. Qui la storia si confonde con quella nazionale; dunque, fermandoci alla nostra città, si riconobbe subito alla stessa un ruolo preminente in fatto di traffici e commerci. Fu chiaro che, volendola eleggere a specchio per le allodole e centro finanziario, si doveva urbanizzare con razionalità e massimo sfruttamento dello spazio, che molto non era. Si concentrò l’interesse sull’isola che saluta gli sbarchi, avvolta dai riflessi acquei, contraltare della dirimpettaia Europa

L’invenzione del cinematografo fornì l’occasione per pubblicizzare le magnifiche sorti progressive del nuovo mondo. Si trattò di un’abile operazione culturale, che vide New York quale protagonista assoluta. Le inquadrature del fronte del porto, dei moli, dell’Empire State Building, della campata del ponte di Brooklyn e del sempre più fitto Skyline, si sprecavano.

Tutto questo belvedere non era stato ottenuto con una passeggiata. L’Empire fu costruito deviando un torrente e distruggendo fattorie; per il ponte più celebre molte furono le vittime e il progettista, figlio del primo ideatore, dovette abbandonare per un’embolia che lo lasciò paralizzato, a seguito di un’immersione esplorativa; diversi operai vi morirono. Davanti al progresso e alla nuova civiltà, nulla aveva importanza e le lacrime si asciugavano in fretta.

La mania dei grattacieli in centro è un classico di molte città americane; si concentrano nella cosiddetta “down town“, un tempo spesso circondata dal nulla o da quartieri degradati, in stridente contrasto.

A New York City – NYC per tutti – l’attività edilizia, mai ferma in realtà, a un certo punto segnava il passo. Lo Skyline necessitava di un aggiornamento, non essendo più sufficienti i fratelloni quasi allineati Empire e Chrisler (quello col pinnacolo finale) a stupire immigrati e turisti che sempre più spesso venivano in visita. Occorreva un nuovo impulso, di più, un nuovo simbolo.

La punta di Manhattan era rimasta un po’ depressa, occupata dal quartiere detto “Radio Row“, per via dei molti negozi di articoli elettrici e per la telecomunicazione. Esso conservava parti storiche che molti di noi avrebbero voluto vedere, ma il business non perdona e fu raso al suolo.

Negli anni sessanta maturò il progetto per un polo di costruzioni, vicino al mare. L’idea fu della famiglia Rockefeller, a disegnare il progetto fu chiamato un architetto d’origine giapponese, Minoru Yamasaki. Il complesso si sarebbe chiamato World Trade Center (centro del commercio mondiale) e alla fine ne avrebbero fatto parte sette edifici, con l’idea fissa di stabilire il record planetario di altezza. Dopo aver scartato varie proposte, si optò per due torri, su una delle quali piazzare l’antennone di riferimento per le comunicazioni.

I particolari dell’ambiziosa realizzazione sono noti e li lasciamo descrivere agli esperti. Da vicino toglievano il fiato e durante il giorno cambiavano più volte sfumature di colore, secondando il sole. Battezzati “Twins Towers“, i due edifici furono terminati nel 1973 ed entrarono di prepotenza sia nel paesaggio, connotandolo, che nell’immaginario: due icone. Se nel ” King Kong” del 1933 Faye Wray era stata sollevata dal primate vicino all’Empire, nel rifacimento del 1976 Jessica Lange fu collocata in mezzo a loro (finti, naturalmente). Nel 1975 un incendio sviluppatosi nella Nord indusse a potenziare i relativi impianti – particolare non irrilevante.

Cosa e chi vi trovò posto? All’inizio si faticò a riempirlo e ci ficcarono gli uffici statali della Port Authority, poi si installarono ditte di tipo finanziario e commerciale.  Al top dei piani si trovavano caffetterie e ristoranti di lusso, nei sotterranei erano un centro commerciale e i garage. Avevano entrambe un tetto accessibile, la Nord per l’antenna, la Sud per i turisti. Il record in altezza fu raggiunto, anche se la solita dispettosa Chicago ci mise poco a superarlo, con la Sears Tower (oggi Willis Tower) e un’antenna più slanciata. In seguito iniziò la corsa al cielo un po’ ovunque, soprattutto in Asia, e la questione dei metri in più o meno passò in secondo piano, prevalendo la bizzarria degli architetti. I media si adeguarono e le produzioni diffusero la nuova immagine.

Senza dubbio, fino a tutto il decennio ottanta, le gemelle tennero il colpo e furono in gran spolvero: affari a gonfie vele, fiumi di visitatori il cui sguardo, aiutato da cannocchiali, poteva spaziare verso l’infinito, mentre si percorreva la “roof promenade” della Torre Sud. Lo spettacolo all’uscita delle migliaia di occupanti mozzava il fiato e atterriva: una fiumana indistinta e inarrestabile, che travolgeva chiunque al suo passaggio, lasciando il sito alquanto desolato. Rimane qualche mistero sulle presenze notturne nelle torri.

Quando il grosso dei dipendenti se ne andava, il piazzalone antistante rimaneva vuoto e battuto tristemente dal vento, che formava correnti provocate dai canyon di cemento. I baracchini per la vendita di pasti veloci smontavano, i cantori da strada sbaraccavano, gli esercizi chiudevano, e aperto rimaneva solo qualche topless bar da due soldi. Restava l’impressione di una “doppia vita” di quel luogo, vivo e vibrante di giorno, morto e foriero di ogni pericolo per il passante, al calar del sole: un aspetto sociale trascurato dai progettisti “ideologici”, che dietro la grandeur, molto più in là non erano andati. Nel 1986 scomparve Yamasaki.

Negli anni novanta iniziarono a insinuarsi le critiche, con la “demonizzazione” del complesso. La lamentela più diffusa riguardava una specie di imbottigliamento che la circumnavigazione del complesso provocava, intasando il traffico.

Alla luce di nuove sensibilità e ricerche si obiettò che le misure di igiene e prevenzione dell’epoca erano state inadeguate, non avendo tenuto in conto che amianto e radon potevano danneggiare la salute degli occupanti.

La sorte si accanì nuovamente e l’attentato del 1993, oltre a provocare sei morti e numerosi feriti, ammantò il complesso di un clima meno gioioso. Gli affitti erano saliti alle stelle e qualche ufficio non trovava inquilini, anzi, si tendeva ad abbandonare la zona. Si era sparsa la voce che convenissero altri quartieri, che presto il centro degli interessi si sarebbe spostato altrove, e tali edifici fossero antieconomici, superati dai nuovi modelli di vita, pericolosi in caso di incendio.

Ciò non impedì all’imprenditore Larry Silverstein, proprio nel 2001, di ottenerne l’affitto per 99 anni, spuntando una cifra enorme di risarcimento dall’assicurazione in caso di attentato, anche aereo. Dopo il fatto, egli insistette per un doppio indennizzo, considerandolo un “duplice attentato”, poi si arrivò a un accordo.

E il sogno americano sbiadì.

Storici, giornalisti, analisti politici avevano anticipato che nel terzo millennio si sarebbero affacciati altri protagonisti alla ribalta mondiale e l’importanza degli USA sarebbe sfumata. La previsione in realtà era scontata, poiché economie all’assalto come quelle cinese e indiana si erano fatte già competitive, minacciando il primato occidentale. Tuttavia la meta finale di tutti erano sempre gli States e questi se ne compiacevano, incrollabili nelle loro certezze. In quel decennio la Russia vide un esodo verso gli States, dove sorsero quartieri russofoni di tutto rispetto.

Dopotutto si è sempre ritenuto che smontare la supremazia delle tradizionali potenze non fosse così facile, per una serie di ragioni, anche culturali. Chi ha in mano la comunicazione, conduce le danze della propaganda, e il sistema anglo – americano rimaneva incontrastato: non si può interloquire in mandarino o hindi, non si propagano modelli esotici come indicatori di stile, e il riso alla cantonese o Bollywood difficilmente potevano sostituire McDonalds e Brad/Angelina. La maggior parte del pianeta al tempo stesso invidiava e/o detestava la civiltà occidentale; le culture diverse, inglobate ma mai considerate alla pari, reagivano con fenomeni socialmente destabilizzanti o una rigida chiusura nelle mura delle proprie tradizioni . Era già questa la situazione, all’alba del 2000 o giù di lì. E l’Islam? Pareva quel grande pericolo?

All’uomo della strada, certamente no. Si era fermi a un amabile sarcasmo, a risatine di sottecchi alla vista delle donne velate, nei paesi che più subivano il fenomeno; quanto agli emigrati, spesso provenienti da ex colonie, si provvedeva a edificare esemplari banlieu o bidonville, dove ammassare queste prolifiche famiglie, il cui capo faceva il muratore, l’uomo di fatica, il venditore abusivo. Questi nuovi cittadini spesso vivevano (e vivono) ammassati in piccoli appartamenti e si sfruttano a vicenda con subaffitti ad alta tensione coabitativa. La superficialità nel monitorare il fenomeno o perlomeno nel metterlo a conoscenza delle masse, si può definire colpevole, sia stata intenzionale o meno.

In ogni caso il protagonista assoluto dell’economia restava il petrolio e dunque nessuno si sognava di screditare gli stati o staterelli del golfo arabico. Né il dilagare dell’uso di stupefacenti muoveva più di tanto le coscienze, pur se era ben conosciuto il movimento di denaro legato al loro traffico, di cui europei e americani era i destinatari finali, i clientoni privilegiati; i flussi del narcotraffico, del prodotto base, partivano da ogni dove, ma le spirali più interessanti si irradiavano dall’Asia centrale, dove i talebani fino a quel momento non venivano disturbati da nessuno. Qualche temerario, come il comandante Massoud, provava a difendere l’integrità del territorio afghano, ma con tale successo che venne eliminato…il 9 settembre 2001.

La Cia

In una canzone di tanti anni fa, il cantante milanese di origini americane Eugenio Finardi ci ammoniva “La Cia ci spia, e non vuole più andare via….”

È normale aver mitizzato, nel bene e nel male, la famosa agenzia governativa di investigazioni, accusata di ogni bruttura da quando esiste: ce lo raccontano in tutte le salse. Nel 1993 abbiamo dunque come protagonista un tale Ramzi Youssef: occhi azzurri (almeno nell’unica foto giovanile conosciuta, ma sembrano più azzurrati da lenti), nazionalità incerta (pare abbia anche usato il nome di Arnaldo Forlani). Costui, approfittando delle libertà garantite in USA, dove viveva, avrebbe organizzato l’attentato nelle autorimesse delle torri del 1993. I resoconti della BBC (fonte Sky TV) ci lasciano di stucco, notando la disattenzione di ogni gradino di intelligence e burocrazia politica e poliziesca; in ogni modo il responsabile viene sgamato e finisce dentro per sempre, ma con un fondo di sua personale soddisfazione, per aver realizzato una rete che porterà avanti il folle progetto già concepito. Forse, pensa, ora le misure di sicurezza aumenteranno, ma l’odio verso l’imperialismo crudele e sfruttatore non impedirà il botto finale: si tratta di vendicare gli oppressi. Le misure non furono rafforzate.

Tale sogno distruttivo ha tutta l’aria del delirio onanistico di un disadattato, visto che il mondo arabo di norma è legato a doppio filo con gli Stati Uniti, ma l’insoddisfazione monta tra le giovani generazioni, convinte di subire un dominio ingiusto, di perdere opportunità; e che i confratelli islamici afroasiatici vengano lasciati nella miseria perché diversi dal “mainstream“, il modello vincente imposto dal padrone.

Si parla di corruzione dei costumi, di lascivia e decadenza che rischiano di debordare nelle sane società musulmane: anche se poi, a quanto se ne sa, appena fuori controllo, chi tra loro se lo può permettere si lascia andare volentieri.

Alfiere della nuova crociata all’inverso diventa il noto e già ampiamente descritto Osama Bin Laden, ricco figlio spilungone di un palazzinaro saudita (numerato tra l’1 e il 54 di tutti i figli di suo padre), nato verso la metà degli anni cinquanta. Dopo una dorata giovinezza londinese, un giorno, circa trentenne, Osama decide di impegnarsi nella vita e si dedica alla liberazione di popoli che forse non glielo hanno chiesto, aiutando i talebani. Lui si reinventa come ideologo, unendosi a un gruppo di teste d’uovo, ovvero la mente del progetto Sheick Khalid Mohammed, il proprio medico Al Zawhairi e il Mullah Omar, un menomato di guerra molto rispettato. Invero il fantomatico guru della rivolta semiglobale sembrerebbe più animato da personali nevrosi che da coscienza politica.

Tutto ciò viene notato dalla CIA, che però è in fase di rotazione dei vertici, perché George W. Bush è presidente da gennaio e le burocrazie, si sa, sono lente ovunque, ancora le scrivanie non sono stabili. Se avvertimenti sono arrivati, si sono arenati in qualche cassetto. I “responsabili” di allora hanno atteso alcuni anni per rilasciare qualche flebile intervista, in cui ammettono che non ci fu troppa collaborazione tra funzionari, ma ognuno rivendica di aver compiuto il proprio dovere.

L’organizzazione denominata Al Qaeda, in partenza, dovrebbe occuparsi di guerra santa contro l’invasore, ma estende il suo giro d’azione e passa all’operativo esteri, insomma va in trasferta, e già da qualche tempo; ha fornito un assaggio ai tempi delle bombe alle ambasciate africane e ora è pronta per il grande salto. Essa dispone di molti campi di addestramento, in cui confluiscono giovani provenienti perlopiù dal medio oriente, in visita studio con l’approvazione dei genitori; i quali, spesso all’oscuro di tutto e convinti di mandarli in un campus o in una sorta di Erasmus islamico a imparare la vita e coltivare la devozione, dopo si diranno affranti e stupefatti. Nessuno li cercherà, né li accuserà mai di connivenze.

La faccenda si è complicata con le scoperte scientifiche e tecnologiche, in particolare il motore a scoppio. Fino a quel momento potevano essere sufficienti le risorse di acqua e carbone, ora non più. E’ evidente che c’è bisogno di petrolio e non tutti ce l’hanno in grande quantità. Chi lo sfrutta? Sempre i soliti, s’intende. E va detto che l’Italia puntava alle colonie anche per questo; Mussolini scalpita quando avvia le sue personali conquiste, per assicurare alla nazione ciò che essa non ha o su cui non riesce a mettere le mani.

Vicende nostrane a parte, la questione si fa spessa e non dà pace alle relazioni internazionali. Non basta possedere giacimenti, bisogna costruire oleodotti, pensare al trasporto, alla raffinazione, mentre si insinua anche la battaglia per il gas. La civiltà industriale, buona, bella e progressiva, richiede consumi spropositati. Una delle teste cadute in questo pateracchio politico è quella dello Shah di Persia, Reza Phalavi.

Nessuno è senza colpe; né chi ha invaso, diplomaticamente o meno, terre altrui; né quei paesi del ” terzo mondo” che, a causa di classi dirigenti poco sensibili se non al potere, si sono resi complici di una colonizzazione sfruttatrice, al posto di quella formale, cessata con l’indipendenza concessa a molti di essi nel dopoguerra. L’Islam ha portato in quei paesi soffi di speranza e aiuti concreti, pochi ma evidentemente graditi, che nessun colonizzatore ha tentato più che tanto di scoraggiare. Il cristianesimo ha installato missioni e convertito popoli, ma è costretto alla convivenza e non si sogna di lanciare strali contro i maomettani. Nondimeno la sudditanza verso il nord del mondo è continuata e forse questa condizione opprimente ha scaldato gli animi di grandi masse giovanili diseredate, che hanno trovato riscatto e vendetta nelle pratiche religiose, pur “contaminandosi” non poco e vivendo una pericolosa schizofrenia esistenziale.

L’Islam non è compatto. A parte la storica derivazione degli sciiti (corrente che fa capo ad Alì, parente di Maometto), molti altri filoni, più o meno integralisti, hanno preso piede, i più disparati a seconda dei paesi; non tutti i musulmani sono arabi, anzi fra essi si contano popoli, come i turchi o gli iraniani, che con gli arabi non vogliono avere molto a che fare. Fare di tutto un “mucchio selvaggio“, a chi conviene? Dunque registriamo con amarezza che, fino al 10 settembre 2001, a ben pochi è importato qualcosa di eventuali nefandezze condotte in nome della religione, a danno anche dello stesso proletariato islamico; e il giorno dopo è partito il furore.

…continua

Carmen Gueye

Riguardo l'autore

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Carmen Gueye genovese laureata in lettere antiche, già pubblicista e attiva nel sociale, è autrice di romanzi, saggi e testi giuridici